CANNES 61 – ''Che'', di Steven Soderbergh (Concorso)

cheBiopic di quattro ore e mezzo, diviso in due parti, opera controversa del regista statunitense che ha diviso il pubblico di Cannes. Cinema superbamente debole come un certo pensiero, che non sembra aver preparato sin dall’inizio questo spazio d’invenzione, ma che piu’ significativamente e’ gia’ parte di un atteggiamento insito di pudore, anche paura, nei confronti di un passo che, se compiuto di slancio e con foga, si annullerebbe. VIDEO

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cheBiopic di quattro ore e mezzo, diviso in due parti (in sala usciranno con una distanza di un mese circa tra loro), opera controversa del regista statunitense che divide il pubblico nettamente, lasciando parzialmente interdetti e titubanti anche coloro che alla fine l’hanno apprezzata. Nella prima parte (girata a Porto Rico e Messico, perche’ il governo americano non ha autorizzato le riprese a Cuba) la storia ha inizio dal 26 novembre 1956  giorno in cui Fidel e Che Guevara (grandissimo Benicio del Toro) si imbarcano dal Messico alla volta di Cuba con un esercito di 400 uomini, intenti a spodestare il dittatore Fungencio Batista. Quindi, il primo film traccia l’ascesa del mito all’interno della rivoluzione cubana. Nella seconda parte (girata principalmente in Spagna e solo qualche scena in Bolivia), dopo la rivoluzione, il Che e’ ormai una leggenda vivente e dopo alcune sue incursioni in Africa e Venezuela, parte per la Bolivia da cui cerchera’ di espandere la rivoluzione cubana a tutti i paesi latino americani. Guerriglia, incursioni in bianco e nero che su fingono immagini di repertorio, intervista di una ipotetica giornalista, foto, scritti e citazioni, tutto questo scorre lentamente e con una straniante leggerezza, che ti accarezza dolcemente fino a strangolarti. Soderbergh regista da alti e bassi illumina con la quasi totale assenza di ritmo lo schermo, congelando il mito. Amorfo verrebbe da dire, azione azzerata, quella che ti lascia in apnea, quella che supera l’istinto del respirare, per sopravvivere. Ma Soderbergh, al di la’ di tutte le storie riguardanti gli aspetti promozionali, riesce sempre a fare, ed anche stavolta, cinema di figure (a volte figure troppo esposte come fossero prêt a porter) spesso figure di gioco e modo dello sguardo, qualcosa come uno strabismo: uno sguardo doppio e divaricato, una diplopia del pensiero, laddove quest’ultimo, se vuole, ha da sdoppiarsi in un medesimo e in un

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chealtro, in Che mito e Che pop o ancora “Che uomo”, che vive alla giornata, senza respiro a volte, senza forze altre volte, con fierezza, tenerezza e durezza, con la consapevolezza che per sopravvivere devi essere gia’ morto, prima di perdersi nella sierra. Che Guevara e’ inaridito o rinato? Troppa enfasi in entrambi i casi, ma intenzionalmente sembra che il regista si fermi alle soglie di questi punti estremi senza mai perdersi totalmente nell’una o nell’altra. Cinema superbamente debole come un certo pensiero, che non sembra aver preparato sin dall’inizio questo spazio d’invenzione, ma che piu’ significativamente e’ gia’ parte di un atteggiamento insito di pudore, anche paura, nei confronti di un passo che, se compiuto di slancio e con foga, si annullerebbe. Ha la cadenza di un passaggio nel tempo che non puoi sottrarre ai suoi corpi o al suo sangue, alle assenze e le isole che a volte derivano. Soderbergh gira come se fosse uno sceneggiato a puntate, ma le puntate si dileguano tra cromatismi tipici del suo cinema (vedi soprattutto la saga Ocean’s, Sesso bugie e videotape, Traffic e Full Frontal) e uno sguardo mai frontale sul personaggio, la storia, la tragedia, capace di non dissumualarsi in quella stessa frontalita'. Come l’ultima inquadratura: soggettiva del Che appena trivellato, che si accascia al suolo, con la faccia sulla terra, con gli occhi, che ancora intravedono gli scarponi del suo esecutore, a chiudersi lentamente o ad aprirsi definitivamente verso la luce abbagliante dell'illusione, della speranza mai sopita.

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