CANNES 61 – ''Wendy and Lucy'', di Kelly Reichardt (Un Certain Regard)

wendyQuarta opera dell’interessantissima regista indipendente statunitense (da recuperare soprattutto Old Joy del 2006). A differenza di altro cinema di questo genere, Kelly Reichardt non vuole essere “maledetta” a tutti i costi, non si perde in malinconiche e disperate derive, trova il suo cammino, sapendo alzare anche, ad un certo punto, la macchina da presa al cielo

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wendyQuarta opera dell’interessantissima regista indipendente statunitense (da recuperare soprattutto Old Joy del 2006). Wendy parte per l’Alaska con la sua vecchia macchina e il suo cane Lucy. In Alaska spera di trovare lavoro e migliorare la sua condizione di vita. In una piccola cittadina dell’Oregon viene beccata a rubare al supermercato e passa qualche ora in cella. Al ritorno verso il supermercato non trova piu’ il suo cane che aveva legato fuori prima di entrare ed essere arrestata. Nel frattempo anche la macchina si e’ rotta e lentamente Wendy comincia a sentirsi perduta e disperata. Si metta alla ricerca di Lucy ma senza risultati fino a quando non incontra un anziano guardiano che l’aiuta nella ricerca. Una storia semplice concentrata praticamente su un unico personaggio, con un strutturazione alle spalle di tipo tradizionale: un montaggio praticamente lineare e non un’insistita e ricercata elaborazione dell’immagine, con effetti di sgranatura. L’altra faccia della provincia americana, dell’indipendenza spesso obbligata, spesso legata, troppe volte temuta. A Cannes gli indipendenti statunitensi hanno sempre avuto grande spazio, molte volte ancor piu’ dei nomi di maggiore richiamo, ed e’ per questo che la Croisette apre spiragli vitali per provare a scendere nel profondo cuore del paese temuto perche’ sempre meno esplorato. Ma a differenza di altro cinema indipendente americano Kelly Reichardt non vuole essere “maledetta” a tutti i costi, non si perde in malinconiche e disperate derive, trova il suo cammino, alzando anche ad un certo punto la macchina da presa al cielo. Come Cassavetes che lasciava scorrere ininterrottamente la verita’ per scongiurare di afferrarla e Antonioni che la sublimava nei silenzi e nei vuoti, la regista americana si muove tra le ombre della notte, nella luce opaca del giorno, negli amorfismi cromatici delle stanze. C’e’ poi una scena in particolare molto bella: Wendy, disperata, dopo aver cercato per tutto il giorno il suo cane e aver disseminato per la citta’ sui capi d’abbigliamento per attirare Lucy con l’odore, si addormenta ai bordi della ferrovia. Un barbone fruga nelle sue tasche e quando Wendy si sveglia resta pietrificata e immobile fissando l’uomo che comincia ad inveire verso di lei nel buio che l’avvolge. Il rumore di un treno che sta passando in quel momento rende ancora piu’ perturbante l’effetto. Splendido sincretismo sensoriale come un fendente a tagliare il corpo della storia in due: da una parte la sofferta incoscienza di Wendy, dall’altra la consapevolezza di saper fare cinema.

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