CANNES 62 – "Adieu Gary", di Nassim Amaouche (Semaine de la Critique)

adieu gary di Nassim Amaouche

Questo primo lungometraggio del regista arabo-francese è un esordio nel segno della discrezione, cinefilo e immerso nel caldo, nella luce bianca di un luogo senza nome che diventa memoria di cinema e di intrecci sociali e generazionali

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adieu garyUn esordio nel segno della discrezione, cinefilo e immerso nel caldo, nella luce bianca di un luogo senza nome che diventa memoria di cinema e di intrecci sociali e generazionali, quello di Nassim Amaouche, Adieu Gary. Primo lungometraggio del regista arabo-francese – già autore del corto d’esordio di finzione De l’autre côté (2003) e del bel corto documentario Quelques miettes pour les oiseaux (2005), girato al confine fra l’Iraq e la GiordaniaAdieu Gary è il ritratto di una comunità le cui persone vivono sospese nella ripetizione di una quotidianità in una cittadina (che il regista ha trovato nell’Ardèche, è la Cité Blanche du Teil), invisibile nella sua globalità, che fu operaia ed è ormai da anni svuotata della maggior parte della sua popolazione. Lì fa ritorno, uscito di prigione, Samir. Ad accoglierlo, la famiglia francese che l’ha cresciuto (il padre è Jean-Pierre Bacri), il fratello, un amico… E una ragazza con la quale vivere una breve storia d’amore. E quella no men’s land che assomiglia a un set western (genere al quale Amaouche dice di essere enormemente attaccato) o di un film sudamericano che attende una sfida, un duello…

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Tutto è sospeso, come ben evidenzia già l’inizio, lo schermo nero con le parole e i rumori di porte che dicono la liberazione di Samir, il suo viaggio insieme al fratello su un’auto senza gomme che percorre un tunnel su un binario ferroviario che conduce alla cittadina, luogo senza centro e senza periferia, dove i pochi posti regolarmente frequentati dai personaggi sembrano comunicare tutti fra loro, come un unico spazio suddiviso in tanti ambienti, a partire dal bar-ritrovo, scoperti, come i corpi che li abitano, da carrelli e panoramiche, da inquadrature che traducono quella sonnolenza, quella noia, quell’impossibilità di fuga per chi ha deciso di rimanere. Perché infine, ovvero per un possibile ri-inizio accennato dall’ultima inquadratura, qualcosa potrà forse cambiare, la fabbrica ricominciare a funzionare per l’ostinazione dell’operaio che non ha mai smesso di pensare possibile la ripresa dell’attività. E un ragazzo silenzioso e obeso, rinchiuso in un suo mondo dove crede che il padre  sia Gary Cooper (perché da giovane era stato così soprannominato), uscire finalmente dal suo auto-isolamento (guardando anche in continuazione film con l’attore – i brani scelti da Amaouche e inseriti a tutto schermo sono tratti da Vera Cruz di Robert Aldrich e Dove la terra scotta di Anthony Mann) nel momento in cui il padre-cowboy gli appare a cavallo e lo libera da quell’incantesimo.

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