CANNES 64 – “Arirang”, di Kim Ki-duk (Un Certain Regard)

arirang
Era sparito da tre anni, le voci correvano sul suo conto e adesso il ritorno. Al di la di tutte le riflessioni paraboliche e simboliche del film, della tentazione narcisistica evidente, del grido di dolore più o meno sincero, il miracolo di Kim Ki-duk si esprime ancora una volta nel desiderio di rifugiare il nostro sguardo in una terra di mezzo, meravigliosamente anacronistica, terribilmente futuristica, da cui ripartire…
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arirangEra sparito da tre anni, le voci correvano sul suo conto e adesso il ritorno. Kim Ki-duk attraverso una canzone tradizionale coreana molto popolare (Arirang) racconta le sue sofferenze artistiche e la profonda crisi personale che ha vissuto in questi anni di silenzio. Durante l’ultimo film del 2008, Dream, la sua attrice ha rischiato di morire dopo una scena e questo incidente ha fatto riflettere il regista sul sua vita. Una vita dedicata al cinema con ben 15 film già all’attivo in 13 anni. In Arirang mette in scena un film in forma di diario, una confessione in una casa abbandonata e in mezzo alla neve, dove ritorna ad una vita senza agi, tranne la presenza di un computer che gli serve per montare. Dialoga con le ombre di sempre, che hanno attraversato il suo cinema, dorme in una tenda per non morire di freddo, si perde nella natura e tra gli oggetti, nei suoni, filma il campo-controcampo della passione solo interrotta. È un’ombra che avvolge il mistero del cinema, compare e scompare con tagli netti delle sequenze, zoomate maldestre, attimi sospesi tra la causa e l’effetto dell’immagine. Sembra essere accerchiato dal cinema, sommerso da comparse, tecnici, maestranze varie, ma è soltanto un miraggio, un miracolo, un refrain che batte in testa. Costruisce strani passatempi: una pistola, un prototipo di bomba per fare il caffè, si isola tra i ferri del mestiere. Al di la di tutte le riflessioni paraboliche e simboliche del film, della tentazione narcisistica evidente, del grido di dolore più o meno sincero, il miracolo di Kim Ki-duk si esprime ancora una volta nel desiderio di rifugiare il nostro sguardo in una terra di mezzo, meravigliosamente anacronistica, terribilmente futuristica. Quasi un’area non illuminata direttamente dal sole o da una sorgente di luce, ma solo dal riflesso della luce che le è diffusa intorno, coperta quindi da un qualche oggetto che si frappone tra la luce e l’area stessa, quella è la sua zona d’ombra. L’ombra sembra in questo caso identificarsi con l’anima, meglio con lo spirito, col quale divide la struttura leggera ed evanescente. Le ombre si fanno rilievi nei momenti di maggior naturalismo. È proprio nel momento della compattezza visiva, della macchina disseminata sui passi dell’ombra che giunge sempre con un attimo di ritardo, che ti accorgi di essere andato oltre un'emanazione del narcisismo del regista, quanto verso la visibile e corretta proiezione del suo corpo. Sulla parete della stanza un'ombra che senza dubbi non è realistica, una macchia misteriosa, carica d’inquietudine…  
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