CANNES 65 – “Baad el Mawkeea” (Après la Bataille), di Yousry Nasrallah (Concorso)

baad
Si attendeva come una pellicola dai potenti connotati politici e civili. Ma in fondo, l'opera del regista egiziano, che prende spunto dalle rivolte di Piazza Tahrir del 2011, contro il regime, è più che altro un melodramma civile, sullo sfondo di un realismo figurativo, generato da un “controllato” found footage. Non c’è da stupirsi se allora la transizione storica è confusa e quella filmata, auspicando una rinascita, è più che altro sull’orlo di una crisi d'identità

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Mahamoud è uno dei “cavalieri della Piazza Tahrir” che, nel febbraio del 2011, manipolato dal regime egiziano di Moubarak, si scagliò contro i giovani rivoluzionari. Umiliato e beffeggiato nel suo quartiere per essere caduto da cavallo, durante la rivolta, ed essere stato linciato dalla folla, Mahmoud perde anche il suo lavoro: portare in giro i turisti nella valle delle Piramidi. Per caso conosce Reem, una giovane egiziana progressista, moderna e laica, che lavora nel mondo della pubblicità. Reem è anche una militante rivoluzionaria e vive nei quartieri bene della città. Il loro incontro trasformerà le loro vite… L'autore, che in passato è stato anche assistente di Youssef Chachine (e l'influenza è abbastanza chiara), è all'ottavo lungometraggio ed il suo precedente, Sheherazade – Tell me a story, fu presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia del 2009. Ancora una volta i temi principali del suo cinema sono la denuncia sociale e la corruzione politica. E come nei suoi precedenti lavori, resta forte la sensazione di uno stile ancorato al melodramma civile, impastato di realismo figurativo. Evidente l'ultimo punto, soprattutto quando il regista, attraverso immagini di repertorio e ricostruzioni fiction, filma le rivolte di piazza (forse le parti più riuscite) e compone una serie di quadri, non sempre fluidamente stratificata e narrativamente coesa. Anzi, la storia, i fatti, la cronaca sono quasi intesi come pretesti di racconto, sfondi a volte trasposti all'occidente, in cui il fulcro pare svuotato, se non altro ammorbidito. Non manca quindi la retorica copiosa, ma è sempre disposta in un discorso di naturalezza e di sincera palpitazione. Inquadrature che si dilungano, altre che si frantumano, delineando un percorso disomogeneo tra memoria e modernità.

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La modernità è materializza in un video che gira su youtube, forse filmato realmente dallo stesso regista, in cui Mahmoud, appunto, viene pestato dai manifestanti. Sembra proprio lo spunto del racconto, la scintilla dell'intreccio. C'è poi in realtà un'affascinante, quanto a volte disturbante, voglia di interrompere il flusso dei desideri, del dialogo, dei tormenti, deviando lo sguardo altrove, probabilmente nel teatro del dialogo interrotto, corrotto, mistificato. Insomma, nel caos. Ma il caos non è subito, è semplicemente descritto, urlato in inquadrature strette, ripetitive, prive di slanci creativi. Il travaso dal realismo al melodramma è anche macchinoso, brusco, terribilmente imbrigliato, pur senza però mai perdere di vista le speranze e le inquietudini della comunità copta (da cui risalirebbero le origini del regista), prima e dopo la caduta del regime. C'è solo un vero sussulto, nella scena finale, una scalata della Piramide, dell'eredità storica imponente, in cui il protagonista vede lontana la meta e il cinema per un momento rievoca sogni, speranze, inclinato perennemente sui rimpianti di una vita, vissuta nell'oscura debolezza umana. Ma la m.d.p. non si blocca, risale il colosso di pietra sino alla cima, lasciando ancora una volta solo immaginare la confusione, il sospetto, la polarizzazione, le teorie complottiste, il futuro incerto. È mai possibile ancora rimpiange la stabilità, o quanto meno la prevedibilità, dei tre decenni di potere di Moubarak? Il cinema stavolta, sulla questione, resta in superficie. Non c’è da stupirsi, in fondo, se allora la transizione storica è confusa e quella filmata, auspicando una rinascita, è più che altro sull’orlo di una crisi d'identità.

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