CANNES 65 – “Io e te”, di Bernardo Bertolucci (Fuori concorso)

io e te
La modernità, oggi ancora più di ieri, abita in Bertolucci, Bellocchio, Moretti e gli ultimi Taviani di Cesare deve morire. Il romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti viene assorbito dalle sensibilità incontrollata del regista, in un cinema straordinariamente giovane che è dipendenza, droga, carico di oscurità ‘polanskiane’. Un cinema che prima balla da solo e che poi ti abbraccia

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io e teCom’è straordinariamente giovane il cinema di Bernardo Bertolucci. Senza raccontarvelo, guardate l’inquadratura finale. Zoom, sguardo in macchina, Lorenzo come Antoine Doinel. Non più una spiaggia ma una strada di Roma, spiraglio di luce improvvisa all’aperto, un’altra nuova forte ondata nell’opera di un cineasta così impermeabile al tempo. Poteva essere girato nel 1962 ai tempi di La commare secca o 50 anni dopo, oggi appunto nel 2012. Non ce ne frega nulla. La spinta è sempre quella. Quelle quattro pareti (in questo caso quelle di una cantina) così come le mura che chiudevano/aprivano L’assedio e The Dreamers – sempre sull’asse Roma, Parigi, Roma – diventano un altro schermo, dove dagli occhi del quattordicenne Lorenzo (Olmo Antinori) e di Olivia (Tea Falco), una ragazza più grande di lui che ha in comune lo stesso padre, si proiettano le loro immagini, i loro episodi del passato, gli slanci improvvisi, la settimana bianca immaginata, raccontata, inventata per telefono, fatta di visioni che passano sotto i nostri occhi.

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Non è un caso, o forse si, che il grande cinema moderno in Italia sia quello di Bertolucci, Bellocchio, Moretti e ora gli ultimi Taviani di Cesare deve morire. Dalle sproporzioni kolossal di L’ultimo imperatore al luogo chiuso e buio di Io e te c’è un cinema che si reinventa, cambia dimensioni, si allarga, si restringe, cambia colore come il camaleonte del negozio di animali. L’isolamento del protagonista è accentuato dalla continua presenza di barriere, che solo l’intimità di Bertolucci riesce a raggiungere senza però svelare il suo segreto ma solo per condividerlo. Lo sguardo del cineasta si nasconde con lui, si ferma davanti a vetri (come quello del formicaio che alla fine si rompe e prefigura forse il cambiamento, una nuova iniziazione del sublime finale), crea una tensione nei passaggi dalla cantina all’appartamento con quell’ascensore in mezzo e con le ombre che potrebbero trasformarsi anche nelle inquietanti oscurità thriller ‘polanskiane’ di L’inquilino del terzo piano. Il romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti (anche cosceneggiatore assieme allo stesso regista, Umberto Contarello e Francesca Marciano, scrittore già portato sullo schermo da Salvatores in Io non ho paura e Come Dio comanda) viene assorbito dalle corde di Bertolucci, dalla sua sensibilità incontrollata, in cui vuole eliminare quasi ogni distanza tra lui e i suoi giovani protagonisti. Macchina da presa attaccata addosso, crisi improvvise, un cinema che diventa dipendenza, droga, che vorresti sempre sul filo dell’ultimo respiro, che balla da solo per poi cercare un abbraccio mentre Olivia canta Ragazzo solo, ragazza sola di David Bowie, che si isola con le cuffie nel suo mondo dove l’universo adolescenziale è più vicino in una spallata data a scuola che in tanti film e serie-tv teenager italiani. E si sente a corpo la vicinanza con le emozioni e i tempi dei suoi giovani attori Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco, entrambi contrapposti alla smaliziata esperienza di Sonia Bergamasco.

Io e te è strepitosamente incontrollabile, viene addosso come onde sugli scogli, facendo tornare alla mente quelle del bellissimo Dark Shadows di Tim Burton. Anche qui Lorenzo e Olivia sono come il Collins di Johnny Depp: escono e rientrano tra i vivi. Più che presenze concrete, attraversano quello che hanno davanti. Un detour con la tenda mentre la madre è al telefono. Scatti fotografici quasi come reinterpretazioni della casa di Burton. Ancora troppo per essere assorbito perché quello di Io e te è un cinema che sogna mentre si vive. E le due esperienze sono inseparabili.

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