CANNES 67 – Leviathan, di Andrej Zvjagintsev (Concorso)

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Sicuramente è nel senso del paesaggio, nella capacità di catturarne i lati metaforici e spirituali, il maggior pregio del cinema di Zvjagintsev. Ma se il fascino evocativo dell’ambientazione è innegabile, si avverte, d’altro canto, il peso della costruzione intellettuale, il desiderio di ingabbiare la narrazione in una struttura chiusa di simboli

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leviathanIl potere, il tradimento, il destino. Zvjagintsev, ancora alla ricerca di un’affermazione definitiva dopo l’exploit a Venezia nel 2003, sembra voler girare il film decisivo, quello in grado di raccontare in pieno la sua visione del mondo e del cinema. E perciò, dopo essersi rinchiuso nei confini del dramma da camera, punta ad allargare lo sguardo, a una grandezza produttiva ed estetica in grado di raccogliere tutte le implicazioni della sua ispirazione. Gioca, dunque, da un lato sul lento approfondimento dei personaggi e dei loro rapporti, dall’altro su un’estensione degli spazi e dei tempi della narrazione. E per la sua storia, attinge addirittura alle fonti bibliche, chiamando in causa direttamente il Libro di Giobbe.

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Kolia (la star Aleksej Serebriyakov) vive in una piccola città sul mar di Barents, con il figlio Roma e la seconda moglie Lylia. È riuscito, con il tempo e la fatica, a costruire una bella casa e a mettere su un’officina avviata. Ma tutte le sue proprietà sono ora minacciate dal sindaco Vadim Cheleviat, interessato a un progetto di speculazione edilizia. Kolia non ha alcuna intenzione di cedere e, perciò, si affida a un brillante avvocato di Mosca, Dmitriy. Eppure le cose prenderanno una piega imprevista, a cui Kolia potrà reagire solo rifugiandosi nella vodka.

 

Sicuramente è nel senso del paesaggio, nella capacità di catturarne i lati metaforici e spirituali, il maggior pregio del cinema di Zvjagintsev. E questa terra desolata battuta delle onde impetuose del Mar di Barents (il film è stato girato a Kirovsk, nella penisola di Kola), abitata da scheletri di balene spiaggiate (e la mente corre ovviamente a Il seme dell’uomo di Ferreri) restituisce appieno quel senso d’impotenza assoluta che costituisce la traccia fondamentale del film.

Ma se il fascino evocativo dell’ambientazione è innegabile, si avverte, d’altro canto, il peso della costruzione intellettuale di Zvjagintsev, il desiderio di ingabbiare la narrazione in una struttura chiusa di simboli. “Fa ribollire quale pentola il gorgo, riduce il mare come vaso d’unguento. Dietro a sé fa risplendere la via, si crederebbe che l’abisso sia canuto! Non v’è sulla terra uno a lui somigliante, fatto per non aver paura… è il re di tutte le bestie feroci!”. È proprio nel Libro di Giobbe che si fa riferimento al Leviatano, il mitico mostro marino dalla forza smisurata. E da lì si risale alle suggestioni hobbesiane, per raccontare l’inevitabile sottomissione dei personaggi alla volontà oscura di un potere assoluto. Le implicazioni thriller del plot si risolvono nell’ambizione di una prospettiva più alta, e politica e metafisica. Zvjagintsev racconta da un lato l'irrecuperabile corruzione di un mondo supinamente piegato agli interessi del più forte, quanto la desolazione di una condizione umana generale. Vola alto, ma il quadro complessivo si fa opaco. Ed è come se tutto il film, al pari dei personaggi, smarrisse la traiettoria, sospeso tra le tentazioni drammatiche e il distacco ironico, l’indecifrabilità delle dinamiche psicologiche e lo sguardo pietoso sulla miseria delle esistenze.

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