CANNES 67 – Mommy, di Xavier Dolan (Concorso)

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Forse il problema è nostro. Xavier Dolan è uno dei giovani cineasti più genialie noi stiamo ancora appresso a Tommy Lee Jones, John Boorman o i fratelli Dardenne. Sperimentatore del futuro, un Godard 2.0, con ralenti, filtri, inquadrature alla nuca alla Van Sant. Un cinema super fico. Ma se per noi si tratta di uno dei più clamorosi bluff recenti, non ha nessuna importanza.

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mommyL’ossessione materna. Dal suo primo lungometraggio, J’ai tué ma mère, premiato nel 2009 a Cannes alla Quinzaine, a questo suo quinto, Mommy, sembra essere un motivo ricorrente, dichiarato già intenzionalmente nel titolo. Si possono sovrapporre entrambi i film. Amore e odio. Una donna con il figlio diciassettenne in J’ai tué ma mère e sedicenne in questo. Visioni quasi proiezioni di una soggettività che si alterna. Con gli occhi della madre. Con quelli dell’adolescente. Lei stavolta è Diane Després, una donna rimasta vedova che deve prendersi cura del figlio Steve che ha un carattere impulsivo e violento. I due, tra alti e bassi, tra slanci d’affetti incontrollati e violenti litigi, trovano un alleato: la misteriosa vicina di casa Kyle.

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Cosa c’è dietro e sotto il cinema di Xavier Dolan dietro un’accattivante seduzione fatta di uno sperimentalismo che si spaccia come la cosa super innovativa e invece già puzza di bruciato? Tre personaggi. Un luogo chiuso come il precedente Tom à la ferme. Dolan li inquadra anche con tutta la passione possibile, fa un lavoro sugli attori dove fa uscire i nervi allo scoperto, evidewnzia le loro debolezze per renderceli più complici. Il punto è: ci frega qualcosa di questi personaggi dopo un’ora di film? Ci frega qualcosa di questo cinema?

 

Il cinema di Dolan in cui l’immagine è dappertutto. Il formato 1:1, una specie di quadrato che inquadra i volti alla perfezione, potrebbe essere l’amplificazione su schermo di quello che si vede sullo smartphone. Lo stesso dove si sentono le canzoni per intero come nel film, da White Flight a Le quattro stagioni di Vivaldi fino a Born to Die. Dove ci dovrebbe essere fusione tra musica e immagine e invece si ascolta il brano guardando distrattamente quello che è filmato.

mommyForse il problema è nostro. Xavier Dolan è uno dei giovani cineasti più genialie noi stiamo ancora appresso a Tommy Lee Jones, John Boorman o i fratelli Dardenne. Che poveri rincoglioniti che siamo. Con quella vicinanza dove il corpo è a portata di mano. Si stampa quasi sul nostro occhio e noi non lo vediamo. Mette in risalto i dettagli degli oggetti (le ruote del carrello o dello skate, la sigaretta, la mano, le vene tagliate), dei volti in carica progressiva prima di portarli al punto d’esplosione (Steve al karaoke che s’inceppa su Vivo per lei di Bocelli), gioca di ralenti, mette tutti i filtri possibili (rosso, blu, giallo), segue il protagonista inquadrando la nuca (i tanti cattivi allievi di Gus Van Sant).

Sarà pure talento, sarà pure un cinema del futuro. Dove ogni inquadratura è solo una delle molteplici angolazioni possibili. Dove dietro alcune scene si possono vedere miliardi di pixel sottotraccia. Sfasamento visivo/sonoro. Un nuovo Godard 2.0? Con il momento dei tre protagonisti che bevono e una voce che va sopra. Ci si proietta nella vita futura di Steve fino al matrimonio. Ma non è il bellissimo finale di La 25° ora di Spike Lee. Ma sembrano dieci cento mille spot, simile a quelli di quelle delle compagnie di assicurazione che fanno le polizze per la vita.

Sarà pure talento, sarà pure un cinema del futuro. Un cinema super fico, che cattura alla Malick la luce che passa tra gli alberi, che fa riemergere gli anni ’90. Musica, teatro, letteratura, immagine. Amore e follia. C’è tutto per amarlo e farsi catturare. Il nostro sguardo è vecchio e stanco. Ancora appresso a Tommy Lee Jones, John Boorman e i fratelli Dardenne. Quindi che si tratti, secondo noi, di uno dei più clamorosi bluff recenti, non ha nessuna importanza.

 

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