CANNES 67 – The Homesman, di Tommy Lee Jones (Concorso)

Tommy Lee Jones consegna uno dei film più cupi degli ultimi anni. Dove non c’è più neanche spazio per una tomba, una sepoltura, una “pietra angolare”.

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Perché vi sia un homesman, il presupposto è avere una casa. Ma allora che speranze può avere o dare questo malnato George Briggs che occupa abusivamente le proprietà altrui e non è ben accetto in nessun posto? Del resto è lui per primo ad aver fatto della fuga e della diserzione una pratica di vita, a non ammettere vincoli. Neanche quel nome, forse, gli appartiene. Almeno non più di quei trecento dollari che si ritrova in tasca a un certo punto, quelli emessi da una banca fallita, e perciò buoni a nulla.

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Tommy Lee Jones, con la collaborazione alla sceneggiatura di Kieran Fitzgerald e Wesley Oliver, adatta l’omonimo romanzo di Glendon Swarthout, già opzionato anni fa da Paul Newman. Chissà cosa ne sarebbe stato… Quel che è certo è che nelle mani di uno dei più arcigni, ostinati e magnifici attori viventi, The Homesman diventa un colpo al cuore.

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homesmanSiamo nel 1854, nei territori di frontiera del Nebraska. Chilometri e chilometri di nulla, di terra e cielo che si toccano sulla linea dritta dell’orizzonte. Cielo solcato da nuvole che si estendono a perdifiato, terra brulla, da dissodare col sangue. Solo qualche pioniere tenta l’impresa di costruire un nuovo mondo. Dovendo fare i conti con la follia del sogno. E, difatti, una piccola comunità è sconvolta dall’improvvisa pazzia di tre donne. Occorre trovare un rimedio, riportarle a est, a casa, nella civiltà. E la coraggiosa Mary Bee Cuddy si offre di accompagnarle in Iowa. Una donna straordinaria questa Mary Bee, anche troppo… “la migliore che sia mai esistita”. Senza marito né famiglia, cerca di mandare avanti la sua fattoria con fermezza e coraggio. Ma la solitudine è troppo forte… non c’è neanche la sua amata musica a consolarla… eppure trova un aiuto per il suo pericoloso viaggio proprio nello scapestrato George Briggs, pescato lungo il cammino con un cappio al collo e i minuti contati.

the homesmanLa premessa per una grande avventura, probabilmente. Ma, in realtà, Tommy Lee Jones sembra, più che altro, interessato a disattendere le premesse. E The Homesman diventa davvero un oggetto assurdo, “non identificato”, che obbliga a fare i conti a ogni istante con questa piega incerta disegnata tra le nostalgie del passato e le speranze e le paure del futuro. La linea del presente, quella delle scelte e dell’azione, finisce davvero per assomigliare all’orizzonte. È una traccia immaginaria, un’idea che trova un corrispettivo nello spazio fisico solo per una rimodulazione continua dello sguardo in rapporto alle cose. Il presente è inafferrabile, inabitabile. Può divenire, addirittura, insopportabile, se ci si ostina a immaginarlo come uno spazio tanto ampio e saldo da potere contenere i ricordi e accogliere le basi del futuro. Forse non si può far altro che accettarne la precarietà, proprio come fa Briggs. “Andiamo verso ovest”, sempre, qualsiasi cosa voglia dire.

the homesmanTo the West… Già, sì certo, questo è un western, almeno all’apparenza… Anche se davvero “non so più cosa voglia dire western”, confida Tommy Lee Jones. La parola è stata a tal punto utilizzata pretestuosamente, da aver perso un senso certo. Rimane come un punto della storia. E poi non c’è più una nazione da fondare, un mito da cantare o rimpiangere. Non ci sono più pavimenti di chiese in costruzione su cui inventare danze o celebrare matrimoni. E perciò il western va bene per tutto. Va bene a mescolare Sentieri selvaggi e I cancelli del cielo, Ethan Edwards e James Averill. Al limite quelle atmosfere, i cappelli da cowboy, le pistole nella fondina, vanno bene anche per provarci a montare su una parvenza di commedia romantica. Salvo poi rinnegarla un attimo dopo, per tramutarla in un tragico e allucinato viaggio all’inferno.

L’unica cosa sicura è che Tommy Lee Jones, nonostante l’apparenza scanzonata del suo ghigno, consegna un film di una cupezza assoluta. Uno dei più cupi degli ultimi anni. Dove non c’è più neanche spazio per una tomba, una sepoltura, una “pietra angolare”. Figuriamoci una casa, una baracca, un albergo. E il sorriso disincantato del suo George Briggs assomiglia a una confessione di estraneità irriducibile al mondo e al cinema “civilizzati”, intelligenti, dominati dai farisei senza cuore che pregano per la salvezza delle nostre anime. Ma non è detto che si debba cedere alla disperazione. Bastano un paio di scarpe nuove e una frontiera da immaginare. Sparare e ballare, nonostante tutto. Maledetto west.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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