#Cannes2016 – Dog Eat Dog, di Paul Schrader

Cinema eat cinema. Nel post-apocalisse produttivo (Dying of the Light) ed estetico (“la crisi oggi è nella forma”) Schrader adatta Bunker e ci getta in una personale ed ironica fury road dei segni

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Non ho i soldi per fare i film che voglio, ma ne ho abbastanza per farli come voglio.” Paul Schrader

 

Cinema eat cinema, si potrebbe quasi dire. Perché nel post-apocalisse produttivo (la vicenda Dying of the Light ha lasciato cicatrici in ogni immagine di questo film) ed estetico (“la crisi oggi è nella forma, sembra il 1913“) Paul Schrader ci getta dalla prima inquadratura in una fury road dei segni senza un attimo di tregua. Il teorico ragionamento sulle superfici dell’immagine filmica ormai fuori dalle sale (negli sperduti The Canyons della convergenza mediale) si fa qui ironica riflessione critica sulla violenza (aprendosi su uno schermo televisivo che trasmette l’assoluta banalità quotidiana delle “armi”) e su una rieducazione impossibile (del cinema contemporaneo) da ritrovare forse nel paradiso perduto dell’immaginario popolare. Dog Eat Dog. L’omonimo romanzo di Edward Bunker, allora, sembra scritto apposta per abbracciare tutti questi spunti: nella misera e umanissima odissea dei tre ex detenuti non rieducati (Troy, Mad Dog e Diesel) troviamo tutta l’urgenza di uno sguardo bastonato ed esiliato, mai domo perché sempre affamato. Schrader è ancora vivo e si ribella all’apocalisse del suo cinema vomitando immagini sformate, drogate, sature di colori primari sino all’eccesso, seguendo le assurde vicende dei suoi tre cani da rapina. Del resto “se lo prendete troppo sul serio sbagliate: qui c’è Bogart, Lee Marvin, Scorsese, Tarantino, persino Tom e Jerry“, il tutto filtrato girando a vuoto tra soldi sporchi e amicizia virile, rapimenti e uccisioni grottesche, dolore represso e destini segnati. Tutto l’armamentario di genere noir-poliziesco-gangsteristico ultracodificato da Hollywood viene piegato ad un apparente non sense incarnato dallo stesso Schrader che si ritaglia il ruolo del vecchio saggio El Greco. Ossia il procacciatore di lavori sporchi che tira metaforicamente le fila della vicenda, sino a quando ogni coordinata gli sfugge di mano e anche il regista si abbandona al caos…

Insomma se per Edward Bunker ciò che contava era l’ineluttabilità dei destini prodotta dalla stortura del sistema (dove poliziotti e criminali sono posti sullo stesso piano a mangiarsi a vicenda senza pietà), Schrader diluisce questi stessi assunti in esilaranti scarti di dialogo fini a se stessi capovolgendo il tono cupo dell’apologo bunkeriano. Il disilluso Troy e il violentissimo Mad Dog – che dire? Nicolas Cage e Willem Dafoe hanno ormai da tempo abbracciato un cinema de-istituzionalizzato, residuale, scartato dai palati fini, e per questo creano abissi autobiografici in ogni loro apparizione – diventano gli ideali antieroi di un film anni ’70 (colti nel loro perenne pomeriggio di un giorno da cani) oggi impossibilitati a configurare la loro tragedia nel cinema (da sempre lo spazio dell’unica trascendenza possibile per Schrader). E allora l’immaginario esploso del passato diventa l’unico rifugio possibile: “io sono un gran cinefilo, qualcuno mi ha anche detto che somiglio a Bogart!” dice Troy nel bel mezzo di un meeting di affari, e poi “vuoi essere la mia Marlene Dietrich?” dice ancora a una prostituta incontrata per caso. Eccolo allora il punto di contatto Schrader-Bunker: c’è una comune com-passione per questi cani cattivi che sguazzano nella melma, una umanità lancinante che sgorga da ogni inquadratura: il desiderio di redenzione di Mad Dog, il sogno di fuga di Troy, l’etica dell’amicizia di Diesel. Insomma c’è un comune paradiso da raggiungere nel loro post-morte, dove uscendo da un diner lycnchano e percorrendo la strada illuminata dal Mago di Oz si possa ancora parlare come-fossimo-in-un-film-di-Bogart e poi morire come fossimo tutti in Una pallottola per Roy. Resisti ancora, caro Paul.

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