#Cannes2016 – Exil, di Rithy Panh

Esilio. Una condizione fisica, politica, esistenziale, sempre imposta e sommamente umana. È tutto questo che vuole ri-vivere Rithy Panh per rimuovere traumi personali attraverso una nuova “immagine”

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Esilio. Una condizione fisica, politica, esistenziale, sempre imposta e sommamente umana. È tutto questo che vuole ri-vivere Rithy Panh, per rimuovere i laceranti traumi personali attraverso l’immagine (mancante) dei suoi film-memoria sempre più connessi. Exil, chiaramente, è l’ennesimo tassello di un percorso che fonde la tragedia cambogiana di fine anni ’70 (il genocidio interno ad opera dei Khmer rossi) e le ferite private di un reduce da curare pian piano con il cinema-vita. Insomma la Storia della Cambogia incontra la storia di Pahn “immaginando” il suo cinema. E allora diventa quasi inutile qualsiasi introduzione ai fatti o al film contingente, perché lo spettatore di Pahn sa già di cosa di cosa si sta “parlando”. Ecco allora: se in S21 era il carcere come luogo fisico/abisso morale ad essere evocato e ne L’immagine mancante era la forma impossibile da dare all’orrore ad essere cercata, qui si travalica ogni confine e ci si trova subito in esilio. Nell’oltre dell’immagine e della storia. Il film mette in scena questa condizione rinchiudendosi in una stanza fuori dal tempo e dallo spazio e intasando l’inquadratura di effetti in conflitto (che travalicano ormai definitivamente i confini del “documentario” cercando un nuovo spazio nel magma indistinto delle arti visive) per far balenare immagini (dal repertorio di regime e agli archivi nascosti) che assumano un nuovo significato.

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È un attore a interpretare il giovane Pahn che ragiona, scrive, soffre, mangia ciò che trova, ricorda, pensa, dorme e cerca di evadere nelle “parole”. Il cinema vuole solo aiutarlo e aiutarci a condividere, interrogarci nuovamente sulle ragioni dell’orrore ciclico e dell’oblio della memoria, opponendo il ricordo sotterrato e poi sopravvivente come unica speranza di spezzare la catena. Come? Cercando ancora uno sguardo soggettivo sulle cose. Un uomo guarda uno schermo, sono proiettate vecchie immagini di repertorio; poi l’inquadratura stacca in dettaglio sui suoi occhi che riflettono quell’immagine divenuta ora “innesto” a tutto schermo, finalmente legittimata a dire ancora oggi. Nel bellissimo e brevissimo inizio del film ci sono già tutte le coordinate che Panh vuole attraversare (ovviamente le sue consuete, ma sempre con piccoli scarti ulteriori).

Due concetti chiave si ripetono ossessivamente: l’esilio, appunto, e la Rivoluzione. Concetti opposti perché l’uno è confinato nella solitudine e l’altro abbisogna della massa, uno è sempre imposto e l’altro (quasi) sempre spontaneo, ma in questo caso sono uniti in una filosofica presa di posizione: è la soggettività degli uomini che forza le parole e sconfina negli orrori della Storia. E allora solo dissotterrando ancora e ancora i ricordi in immagini (mancanti, sì, ma pur sempre vive) si potrà tentare di uscire, sfocati e nudi, dalla caverna e dal cinema. Rithy Panh ci ha detto le stesse cose molto meglio in passato? Forse sì, ma il punto è proprio questo: val la pena comunque continuare a dire.

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