#Cannes2016 – Fai bei sogni, di Marco Bellocchio

Apertura della Quinzaine, un Bellocchio capace di far esplodere in mille rivoli ancora una volta il proprio cinema, l’urgenza politica di una filmografia di gesti di coraggio abissali e assoluti

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Scrivi quello che ti passa per la testa, buttacele dentro tutte quelle lacrime. E soprattutto…non rileggere. E sembra non aver più alcuna voglia di rileggere, Marco Bellocchio, quantomeno dal momento in cui la forma del suo cinema ha iniziato ad assumere l’anima stratificata dell’appunto frammentario, spezzato, annotato nel corso del tempo, ovvero dall’istante in cui i suoi racconti interiori e visionari si sono lasciati contaminare da una coralità che fa incrociare situazioni nella Storia, apparizioni di personaggi da altre dimensioni, traiettorie sentimentali apertissime, fonti e formati con una libertà che sconfina in una meravigliosa, benedetta, apparente “incoscienza autoriale”.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

E davvero Bellocchio pare non aver riletto prima di spedirla a Cannes neanche questa nuova vertiginosa variazione sui temi a lui più cari, prendendo per buono il consiglio che il direttore del giornale dà al suo protagonista Massimo (Valerio Mastandrea) e che lo porterà a diventare la star dell’editoriale dai buoni sentimenti e dalle riflessioni spicciole (“il tuo articolo era pieno di ovvietà emozionanti”). Rivoltare Gramellini contro Gramellini? Da quale parte si schiera Bellocchio, da quella di chi apre il proprio cuore ad una confessione che per una volta se ne infischia del rischio della retorica e delle ritrosie della ragione, o con chi è subito pronto a canzonarne il risultato sbilanciato e melenso (“cosa dovremmo fare adesso, abbracciarci?”).
Lasciamo questo quesito ai colleghi italiani che stamattina in Quinzaine aspettavano la proiezione con gli smartphone puntati contro l’operazione di Fai bei sogni, perché alla nostra sprovveduta ingenuità interessa più di tutto non farsi scappare neanche un fotogramma della confermata felicità espressiva di Marco Bellocchio, capace di far esplodere in mille rivoli ancora una volta e ancora di più il proprio cinema, gioco a nascondino con i fantasmi che e’ destinato a non trovare posa film dopo film, immagine dopo immagine, saga privata dalle coordinate personalissime anche quando il punto di partenza e’ il romanzo dai toni autobiografici scritto da un altro.

La capacità di Bellocchio di capovolgere con ogni sguardo e di far saltare in aria

fai_bei_sogni_bellocchiocon ogni taglio di montaggio i confini di pubblico/privato e interno/esterno rinnova l’urgenza politica di una filmografia fatta di gesti di coraggio abissali e assoluti, che qui trova nelle sequenze con il piccolo Massimo che guarda l’Italia alla finestra un referente esplicito nel viaggio in treno affacciato al finestrino del bambino de Il silenzio di Bergman. La Timoka di Bellocchio e’ allora una città dalle fondamenta catodiche, fatta di un passato che vive come interferenza di grana televisiva che si sostituisce così ai sogni, alle visitazioni e ai ricordi: Canzonissima, lo sceneggiato Belfagor (1965, l’anno de I pugni in tasca), la storia del grande Torino, le dirette olimpioniche, Tangentopoli e le giornate di guerra civile a Sarajevo… e’ come se Bellocchio avesse accettato la sfida della narrazione seriale della nostra generazione (che ha tra i propri responsabili la montatrice abituale del regista, Francesca Calvelli) per ribattere con un processo di pura astrazione del repertorio (elettro)domestico, che finisce in questa maniera per costituirsi come unico orizzonte possibile, ribaltando l’ipotesi menzognera dell’esistenza di un “esterno”. La’ fuori non è più una destinazione possibile, quando ogni cielo è diventato il fondale, evidentemente finto ma allo stesso momento così inequivocabilmente familiare ed intimo, delle costellazioni fluorescenti di un presepe natalizio.

E’ vero, il gorgo è ancora una volta l’unico disegno narrativo immaginabile della progressione immobile delle storie di Marco Bellocchio, e l’unico movimento previsto è verticale, in un film costellato da mille salti nel vuoto, e altrettanti tuffi.
E’ forse per questo motivo che le scene “musicali”, di ballo o di donne che cantano nel cinema di Bellocchio (quel sorriso di mia madre di Barbara Ronchi che intona Resta cu ‘mme mentre piange vale gia’ tutto il Festival) sono così diverse da quelle che affollano la produzione italiana: a danzare e’ ogni volta l’atto estetico e necessario del rimettersi perennemente in gioco, abbattere strutture e paletti, liberare il proprio sguardo, senza vergogna. Lasciala andare.

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative