#Cannes2016 – La Mort de Louis XIV, di Albert Serra

Serra opera una chirurgica riflessione sulla vita di un’immagine (il Re Jean P. Leaud) affiancandola alla consueta analisi sulla fenomenologia dei gesti che schiuda contingenze sentimentali improvvise

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Il suo sguardo è bloccato” dice un medico della Sorbona mentre visita attentamente un debolissimo Luigi XIV incontrato nei suoi ultimi giorni di vita. Il suo sguardo non riesce più a produrre geometrie visive, pertanto, seguendo il sapere di questi scienziati che analizzano anatomicamente l’occhio del Re… ma dietro quello sguardo c’è Jean-Pierre Léaud, nulla può essere bloccato o morto, nessuna immagine può concepirsi ferma o passata, perché è la memoria del medium che inizia a smuovere lo schermo e la sedia della spettatore, e allora la stasi diventa ancora fuga (di significanti) verso il mare aperto del cinema. Albert Serra torna alla regia dopo gli ultimi giorni di Casanova che incontra Dracula (Historia de la meva mort) e ci immerge negli ultimi giorni di vita del Re Sole, altra immagine vampiresca che ha cambiato la Storia d’Europa proprio perché consapevole di poter trascendere dal corpo. Di non poter essere bloccata, appunto, dalla gravità delle cose o da un corpo in decomposizione. E Serra sceglie Léaud (ovviamente, potremmo dire…) per interpretare quel ruolo, decuplicando il portato iconico di ogni singola inquadratura: l’icona truffauttiana (e di ogni Nouvelle Vague) si dona magnificamente con la consueta sincerità e per l’ennesimna volta riesce anch’egli (da Re Sole del cinema) a trascendere corpo e recitazione per porsi direttamente nel regno delle immagini-immortali intrise solo di tempo.

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Albert Serra opera una chirurgica riflessione sulla vita di un’immagine affiancandola alla sua consueta analisi sulla fenomenologia dei gesti che schiuda contingenze sentimentali improvvise e pressanti. I primi piani si alternano ai totali, sempre nel buio e nelle ristrettezze di una stanza funerea, camera verde, che viene sfondata in profondità per sorvolare il romanticismo pittorico e la simbologia cristologica, gli echi beckettiani e quelli pasoliniani, sino a tornare  qui e ora al cinema. Tornando a Rossellini, pertanto. Serra sembra consapevole di tutto il portato rossellianiano dell’operazione spos(t)andone il fuoco: se La presa del potere da parte di Luigi XIV creava la coalescenza abissale di Immagine e Potere nella contingenza di uno sguardo, donando solo al cinema le armi per riflettere su questo fenomeno così moderno; Serra ri-parte proprio da qui ragionando sulla fine impossibile di quella stessa immagine. Con la solita ironia riempie il suo film di bizzarri dialoghi tra cortigiani, dame e medici di corte, tutti intenti a trovar soluzioni per salvare la vita al Re interpretando ogni “segno” fisico della sua degenza: il corpo (del cinema) si sta incancrenendo. Ma Re Léaud è già salvo dalla prima inquadratura, ponendosi scultoreo e lieve come un archivio-vivente di segni sedimentati e sopravviventi, tanto da concedersi il lusso di prendersi gioco dei medici (e di noi spettatori) in un meraviglioso detour verbale di suoni che simulano un linguaggio inesistente. Ecco allora: che lingua sta parlando, esattamente, il morente Luigi XIV di Albert Serra? Una lingua viva immaginata ancora da Jean-Pierre Léaud.

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