#Cannes2016 – Me’ever laharim vehagvaot (Beyond the Mountains and Hills), di Eran Kolirin

Dopo i successi qui alla “Un Certain Regard” con La banda, il suo esordio del 2008, Eran Kolirin torna a Cannes con Me’ever laharim vehagvaot, terza opera ben lontana dalla fiaba. Un certain regard

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Dopo i successi qui alla “Un Certain Regard” con La banda, il suo esordio del 2008, Eran Kolirin torna a Cannes con Me’ever laharim vehagvaot, terza opera ben lontana dalla fiaba. Il regista isrealiano, infatti, con questo film, racconta la tragedia di una famiglia ridicola, un nucleo famigliare simbolo della classe media dello stato ebraico. La composizione del quartetto dei protagonisti del film è, appunto, tipica: c’è un goffo padre, appena congedadosi dall’esercito è in cerca di un’attività commerciali di successo, una madre, professoressa di letteratura non immune alle avances di un suo studente, una giovane figlia con velleità politiche progressiste e filo-arabe e un figlio, comparsa animalesca, che ciondola tra le stanze del bell’appartamento in collina della famiglia. Probabilmente, nelle azioni dei quattro, nelle loro traiettorie (a)morali, è possibile ritrovare la solita auto-critica autoriale di un cineasta disgustato dalla discesa etica intrapresa dall’Isreale di Bibi Netanyahu. I rapporti tesissimi e basati su una diffidente paura tra la ragazza e alcuni coetanei arabi sono la prova più evidente di questa lettura politica.

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L’obiettivo di Kolirin, però, è più complesso e profondo di una scontata fotografia del conflitto sociale ebrei vs arabi. Me’ever laharim vehagvaot è, infatti, un feroce manifesto della Stupidità. I suoi protagonisti, per tutta la durata del film, compiono solo azioni stupide, approssimative e ottuse, tutte dettate non da istinti animaleschi o da passioni irrefrenabili (emozioni che avremmo compreso e perdonato) ma da una costante e ipocrita irresponsabilità che distrugge tutto ciò che è loro attorno. Nascosti dietro la pretesa di ostentare, magari anche credendoci, di essere brave persone (il buon padre di famiglia, la giovane ragazza interessata alla sorte degli indifesi, etc.) i nostri protagonisti si macchiano di patetiche azioni spregevoli, non arrivando neppure ad uno status, terribilmente magnifico, di mostri. Soprattutto la coppia di coniugi, i due sciocchi genitori, sono l’emblema di questa miope incuranza delle reazioni dei propri gesti, i maggiori responsabili della condanna dei propri figli, degni eredi della propria miseria umana. Kolirin racconta e disprezza questi meschini esseri umani (immagini dei propri concittadini?) gettandoli nella vuota e scontata monotonia della loro esistenza borghese, negandogli persino l’apoteosi di una fine gloriosa.

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