#Cannes2016 – Protocollo fantasma

Il ritorno alla vittoria di Loach, a dieci anni di distanza, è forse il segno che dal 2006 a oggi ben poco è cambiato. O meglio è cambiato molto, forse tutto. Ma non certo qui a Cannes

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La Palma d’Oro a Ken Loach per I, Daniel Blake ha colto tutti di sorpresa. Si rincorrevano voci più o meno affidabili o accreditate, chi puntava su American Honey della Arnold (a cui è andato poi il Premio della Giuria), chi su Tony Erdmann di Maren Ade (poi rimasto a bocca asciutta, nonostante il quasi unanime plauso critico). Ma sul buon vecchio Ken nessuno aveva scommesso un euro. Forse perché I, Daniel Blake, al di là delle valutazioni di merito o la spontanea partecipazioni ai suoi contenuti “proletari” (dov’è ancora la sinistra?), non aveva dato l’impressione di segnare un momento decisivo nel cinema di Loach. Eppure, ecco il classico coniglio tirato fuori dal cilindro. Che ha il sapore di una scelta “indolore” capace di comporre le diverse anime e tendenze di una giuria sostanzialmente divisa. Come testimonia soprattutto il premio ex aequo alla regia per Personal Shopper di Assayas e Bacalaureat di Mungiu, due film molto diversi per concezione, intenti e stile, nonostante le connessioni più profonde che ci affanniamo a rintracciare. La Arnold, Assayas, Mungiu, The Salesman di Farhadi, a cui è andato un doppio tributo, miglior sceneggiatura (e siamo d’accordo nel ritenere il cinema di Farhadi un cinema di scrittura, nel bene e nel male) e miglior attore protagonista, Shahab Hosseini. E poi il premio già scontato alla vigilia a Xavier Dolan, nato, allevato e cresciuto a Cannes, come un pollo da batteria… Ecco, che tipo di cinema raccontano questi premi? Nessuno, probabilmente. Come spesso accade. Ma c’è qualcosa… il ritorno alla vittoria di Loach, esattamente dieci anni dopo Il vento che accarezza l’erba, è forse il segno che dal 2006 a oggi ben poco è cambiato. O meglio è cambiato molto, forse tutto. Ma non certo qui a Cannes. Il cinema d’Autore, quello con la maiuscola, quello fatto dai grandi nomi laureati e dai giovani allevati in vitro e, poi le passerelle, la celebre montée des marches, l’ingresso solo su invitation, la tenue correcte exigée. Persino la sigla, sempre uguale.

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la mortA Cannes domina il protocollo. Al punto da arrivare ad assurdità “burocratiche” non molto distanti da quelle subite dal povero Daniel Blake. Come quella a cui abbiamo assistito alla proiezione di mezzanotte di Gimme Danger, il doc di Jim Jarmusch su Iggy Pop e The Stooges. Un bel comunicato affisso da giorni all’ingresso della sala stampa annunciava la possibilità di entrare al Gand Théâtre Lumière semplicemente presentando l’accredito. Ma ai cancelli d’ingresso gli addetti reclamavano le famigerate invitations, affermando di non aver ricevuto alcun avviso. Proteste, discussioni, responsabili spaesati. Un’impasse durata un bel po’ di tempo. Finché un collega non si è fatto scortare, “fuori orario”, in sala stampa per mostrare la prova del nostro diritto. È solo un aneddoto, che racconta però bene la sensazione di una certa ingessatura istituzionale di un festival che replica, anno dopo anno, i propri riti. Il che ha un suo fascino. Ma viene il dubbio di star assistendo alla lenta decomposizione di un corpo regale, come nel lucidissimo La mort de Louis XIV, densa dimostrazione di Albert Serra sull’idea di cinema come “morte al lavoro”. Quanto un festival del genere riesce ancora a cogliere i segni del presente e del futuro dei modi di produzione e fruizione del cinema? Quanto riesce a smarcarsi da una generale sensazione di scollamento rispetto alla realtà? Del resto, la selezione ufficiale di Cannes non ha mai cercato un “pubblico”, rigorosamente tenuto a distanza dalle porte del paradiso del Palais. E, nonostante le trasformazioni degli ultimi anni e la sua gigantesca macchina organizzativa, non ha mai garantito altre modalità d’accesso che non fossero quelle del privilegio degli addetti ai lavori e degli invitati del primo e dell’ultimo minuto. È quanto meno sintomatico che l’app ufficiale del festival (almeno quella per i-phone) non sia stata all’altezza della manifestazione… Rimane, certo, ancora l’appeal mediatico dello stardom che passa per la Croisette. Pur se i nomi son sempre quelli. Clooney e Jodie Foster, Sean Penn e Charlize Theron, Mel Gibson, protagonista superbo dell’ultima serata con il Blood Father di Richet (tutt’altro che cinema “à la Cannes”). Ma, facendo una semplice passeggiata nel Marché (il vero cuore vivo del festival) per dare un’occhiata alle nuove superproduzioni, viene da pensare che l’unica grande star planetaria sia Jackie Chan, che ora va alla conquista anche di Bollywood con Kung Fu Yoga. Forse gli unici star system capaci di sconquassare i mercati sono ad Est. Eppure di Hong Kong, della Cina, dell’India quest’anno c’era ben poco in selezione. Quasi nulla. Mentre Hollywood arranca. O quanto meno non considera i festival come una vetrina necessaria alle sue strategia industriali, come dimostra anche la controversa vicenda di Hands of Stone.

 

dog eat dogCerto, c’erano Money Monster e lo splendido The BFG di Spielberg, con buona pace dei detrattori “politici” di questa incredibile fiaba adulta. Ma fuori concorso, al pari di Woody Allen. Mentre in competizione passa l’imbarazzante, purtroppo, appello umanitario di Sean Penn. Il mainstream fa fatica. Restano gli sguardi eccentrici, originali, più o meno convincenti, Loving di Jeff Nichols, che nell’abbracciare le formule strutturali di un cinema più istituzionale mostra ancora le sue ossessioni e le sue paranoie, la Arnold, che sembra inseguire le strade degli anni ’70. Per il resto, il cinema che mette in gioco le star sembra il meno vivo, vuoto quasi quanto le impalcature visive e le bambole di Nicolas Winding Refn. Anche oltre l’America, come mostrano Mal de pierres di Nicole Garcia e lo stesso Juste la fine du mond di Dolan, album di figurine del miglior cinema francese, confezionato di tutto punto, giusto per portarsi a casa un Grand Prix. E, allora, non è un caso che il film più dinamitardo, più follemente determinato nello scardinare le gabbie della prigione hollywoodiana, ridiscutendone le formule narrative, Dog Eat Dog di Paul Schrader, sia stato presentato alla Quinzaine. Perché, in generale, la sezione curata da Waintrop, con le sue proiezioni affollate, con le sue Q&A accese, dà segni di modernità e di apertura al pubblico quasi rivoluzionari rispetto al protocollo. Accogliendo gli esiliati, gli autori problematici eppur vivi, quelli dagli esiti più discussi eppur sicuramente non conformi. Bellocchio, Larraín. E poi Lafosse, Sébastien Lifshitz, il film postumo di Sólveig Anspach, lo stesso Jodorowsky, pur con tutti gli eccessi della sua autoinvestitura oracolare. E poi lo sguardo caldissimo di Claudio Giovannesi e l’animazione fuori tempo massimo di Claude Barras, su cui soffia la scrittura a fior di pelle della Sciamma. Cinema ancora giovane. A prescindere dall’anagrafe.

 

after-the-stormEppure, tornando alla selezione ufficiale, tra concorso, proiezioni speciali e Un certain regard, i film che hanno lasciato il segno sono stati diversi. A dimostrazione di come, in ogni caso, a Cannes si delinei sempre, per forza di cose, la traccia di percorso, un’idea delle nuove traiettorie dello sguardo. Uno sguardo il più delle volte “critico”, come quello di Olivier Assayas e Kleber Mendonça Filho, capaci di raccontare, in maniera diversa, la smaterializzazione della realtà, la progressiva perdita di peso dello spazio fisico nelle nuove strategie dei rapporti e dei consumi. A loro si connettono, in maniera sotterranea, quasi insospettabile, i film dei fratelli Dardenne e di Cristian Mungiu, che ancora una volta ragionano sul controcanto politico delle vicende individuali. Un po’ come Loach, certo. Ma in I, Daniel Blake l’afflato battagliero e la partecipazione umano non sembrano mai mettere in discussione le forme e le strutture di un cinema “corretto”, quello che ancora si rivolge al grande pubblico (ma qual è, davvero, il pubblico di Loach?). Mentre gli altri autori scelgono di confrontarsi con un cinema “ostile”, stridente, intransigente, molto spesso antispettacolare, narrativamente oscuro, persino estenuante. E in questo senso, una delle vertigini è stata Sieranevada di Cristi Puiu, magnifico film di famiglia inquadrato, prima ancora che raccontato, da un punto di vista “fantasma” (i fantasmi di Assayas?). L’occhio non è in posizione comoda, è costretto a ripensare continuamente le proprie traiettorie, a stabilire le sue connessioni (e noi siamo ancora al lavoro). Ma di certo, si avverte un senso di inquietudine e di minaccia che pare trasformarsi in una sottile paranoia, una sensazione che trova la sua espressione più perfetta nell’atmosfera surreale e angosciante dell’interessantissimo La larga noche de Francisco Sanctis, di Francisco Marquez e Andrea Testa. C’è qualcosa di angosciante. Sarà il tempo che ci scava dentro e fuori, come in Albert Serra e Le Cancre di Paul Vecchiali (due film che, nonostante le apparenze, mi sembrano avere molto in comune). Sarà la tela oscura del sistema, come suggeriscono Mungiu, Mendonça, Farhadi e, per certi versi, The Happiest Day of Olly Maki, il film di Juho Kuosmanen che ha vinto Un certain regard). O la follia che ci portiamo dentro, come in Harmonium di Fukada. Ma di certo quest’inquietudine attraversa anche i gioielli più cinicamente divertenti, come Elle di Verhoeven, scheggia cristallina eppur oscura, che taglia in due, alla velocità della luce, il nostro sguardo e i nostri parametri “morali”. Fino a dare un ulteriore spessore umano all’infinita quotidianità di Paterson, di Jim Jarmusch. Un colpo al cuore che racconta la coincidenza assurda del vuoto e della bellezza nella ruota del tempo. Un po’ come l’altro grande film lacrima di questa Cannes 69: After the Storm di Hirokazu Kore-eda, che annulla in un attimo, senza sforzo apparente, la distanza tra il cinema e la vita. Per toccare e alleviare tutte le nostre perdite, quelle meravigliose ferite che sanguinano ancora.

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