#Cannes2017 – Rodin, di Jacques Doillon

Doillon riconosce nel grande scultore un formidabile alleato per continuare a parlare dei suoi temi e per ritrovare quello slancio capace di smuovere la gelida superficie della foma. In concorso

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Opere e vita del grande Auguste Rodin. Si parte dai quarant’anni dello scultore, più o meno il 1880, quando gli fu affidata la prima commessa pubblica, La Porta dell’Inferno, che avrebbe dovuto essere l’ingresso di un nuovo museo di arti figurative a Parigi, poi mai realizzato. E si arriva alla fine degli anni ’90, quando la statua di Balzac fu definitivamente rifiutata dai committenti, la Société des Gens de Lettres.

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rodin1Innanzitutto le opere… perché Jacques Doillon parte dal metodo di Rodin e dalla sua ossessione incontenibile per il lavoro. La dimensione artigianale del processo artistico, lo studio e la pratica continua, la comprensione profonda dei materiali fino alla sovversione della loro gerarchia, con l’argilla che prende definitivamente il sopravvento, per la sua concretezza e modellabilità, per la possibilità offerta di una continua rimodulazione, di cambiamenti e ritorni a distanza, impensabili con altri materiali più “nobili”. Il Rodin di Doillon fa dell’arte non l’accensione improvvisa del genio, l’espressione di un’ispirazione fulminante, ma il risultato di un lavoro e di una tensione costanti, una lotta con la materia e con il reale, con il corpo della cosa, cioè l’oggetto da manipolare, modellare e scolpire, e il corpo vivo, che è quello da rappresentare. Il punto è trasmettere al primo la vita del secondo, farla venir fuori dal fondo della materia, come una pura riscoperta (ho imparato la scultura dagli alberi), oppure farla entrare a forza, a furia di colpi, di torsioni, di gesti e spostamenti inaspettati. La ricerca testarda del realismo (“se avessi continuato a dipingere, sarei diventato un piccolo Courbet”) non può consistere più nella pura e semplice copia conforme, ma deve coincidere allora con questa tensione ulteriore, deve essere l’espressione di questo movimento impossibile, il tentativo di ridonare all’inanimato la quarta dimensione della vita. Rodin parla alle sue statue come fosse Michelangelo, “ora ti ho preso” dice al suo Balzac, a quel volto e quel corpo che si ribellano e sfuggono. E anche dopo sette anni di lavoro, a opera finita, continueranno a sfuggire, a muoversi e agitarsi come animati da una forza incontenibile.

rodin2Poi la vita, il rapporto burrascoso con Camille Claudel, che non è più la pura vittima della leggenda, ma una donna tormentata in cerca della sua autonomia. E quello “di comodo” con Rose, la vecchia compagna che accompagnerà fino alla fine Rodin. E poi le tante altre amanti, giovani modelle e allieve, una specie di dipendenza dal sesso di un uomo ossessionato dalla carne, dalla concretezza dei corpi…

Si può senz’altro discutere sull’austera eleganza della ricostruzione e sul lento incedere del racconto, che sembrano essere troppo ancorati al passato. Ma Doillon riconosce in Auguste Rodin un formidabile alleato per continuare a parlare di rapporti di coppia, con le loro linee di tensione e frattura, e per andare più a fondo nell’esplorazione della sensualità, superando la distanza intellettualistica del precedente Mes scéances de luttes. Con quelle dissolvenze in nero a chiusura delle scene, sembra voler riprendere l’idea di un cinema che scolpisce la luce a partire dal buio. Ed è attraverso queste strade e la stratosferica densità di Vincent Lindon, che Doillon trova quello slancio capace di smuovere la gelida superficie della forma e di riconsegnare all’immagine una pienezza carnale, un respiro vitale di passione e desiderio.

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