#Cannes2017 – West of the Jordan River, di Amos Gitai

Un documentario diaristico militante e umanista, in cui Gitai affronta la questione israelo-palestinese attraverso diverse voci e punti di vista: una straziante preghiera di pace. Alla Quinzaine.

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A ovest del Giordano. Sin dal titolo l’ultimo lavoro di Amos Gitai rimanda a uno spazio, che è geografico, ma anche spirituale, culturale e ovviamente politico. Nei territori occupati di Cisgiordania e Striscia di Gaza c’è ancora margine per un percorso di pace tra israeliani e palestinesi? E come poter raccontare questa crisi umanitaria cercando di essere al di sopra delle parti? Forse focalizzandosi e raccontando le ultime sacche di una resistenza pacifica alla guerra. È quello che dice di fare l’autore di Kippur e Kadosh. E allora ecco che trovano eco quelle realtá sottaciute dall’establishment come Breaking the Silence, l’associazione di ex militari israeliani che raccontano la verita quotidiana nei territori di Hebron, B’Tselem, il quartier generale dei diritti umani nei territori occupati, o Ta’ayush, l’organizzazione di palestinesi e israeliani che combatte l’Intifada. Gitai da straordinario cineasta qual è, assembla registrazioni, interviste, confessioni anche strazianti, documenti realizzati dal 1994 a oggi. Mette in relazione voci e punti di vista discordanti per provare a costruire un dialogo tra le parti. Il documentario segue una forma diaristica spezzata che va avanti e indietro nel tempo, con diversi rimandi alla celebre intervista che il regista fece a Ytzhak Rabin nel 1994 prima dell’attentato che pose fine alla vita del Primo ministro e di un serio progetto di pace. Come aveva giá raccontato nel bellissimo Rabin the last day, è quell’attentato il peccato originale che ha messo Israele in un punto di non ritorno e di quel film questo documentario ne e’ quasi la continuazione. Senza alcuna forzatura ideologica o didascalica. Perché Gitai è prima di tutto un umanista che crede innanzitutto nella legge dell’Uomo – impressionante la sequenza in cui cerca inutilmente di comunicare a un bambino palestinese la sua assurda ambizione di morire come un martire – e nella condivisione degli spazi (ricordate il bellissimo Ana Arabia tutto ambientato in un cortile abitato da famiglie ed etnie differenti?). In fin dei conti West of the Jordan River altro non è che una preghiera laica su quello che ancora possono essere arabi e israeliani (ma non solo) nel mondo di domani. È un’opera che nella disperazione di una situazione politica sempre piú compromessa, cerca ancora una luce.

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