#Cannes2018 – 10 Years Thailand, di Aditya A., Wisit S., Chulayarnon S., Apichatpong W.

Quattro registi thailandesi cercano di immaginare il futuro del loro paese tra 10 anni. Tra alti e bassi, un progetto interessante, con la vetta firmata da Apichatpong Weerasethakul

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Thahilandia, 2028. Come si immaginano il futuro (prossimo) del loro paese quattro importanti cineasti? Tra controllo dell’immagine, mutazioni corporee, nuovi sguardi distopici e tracce memoriali del passato, questo strambo progetto a quattro mani disegna interessanti e inaspettati ponti con altre latitudini (cinematografiche). Il primo segmento (firmato da Aditya Assarat e intitolato Sunset) è ambientato in un salone delle esposizioni dove è in corso una bizzarrra mostra fotografica dedicata ai cattivi messaggi che demandano involontariamente le persone. Un poliziotto che piange, ad esempio… quindi un controllo ideologico che assorbe l’arte come braccio del potere. Sunset, allora, cerca di forzare i significati delle immagini seguendo le peripezie sentimentali di un giovane poliziotto di guardia che s’innamora di una ragazza e inizia a interpretare in maniera diversa quelle fotografie. Il bianco e nero incornicia questa storia nello spazio del cinema (e della sua memoria) come collante sociale che può far ri-pensare sulle immagini al di là dell’ideologia manifesta.

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Il secondo segmento (firmato da Wisit Sasanatieng) disegna invece un futuro distopico dominato da uomini gatto (Catopia è il divertente titolo). Il film ci catapulta in un mondo innervato di mutazioni genetiche prodotte (ovviamente) con un’evidentissima CGI che muta i corpi degli attori e riflette intrisecamente sull’immagine contemporanea. Ancora una volta è il sentimento del ragazzo umano verso un’indifesa donna-gatto può far sorpavvivere (almeno) le emozioni. Stesso terreno in cui si muove il terzo episodio (Planetarium) firmato da Chulayarnon Siriphol. Una sorta di Black Mirror lisergico in salsa thai, dove una potentissima signora (chiamata “ministra del VHS”) guida e ordina i sentimenti e gli spostamenti del popolo tramine uno smarthphone onnipotente. Il touch diventa il nuovo ordine e sostituisce lo sguardo sulle cose, disegnando un mondo dominato dai media (con i riferimenti evidenti all’usura del VHS come morte imminente) e dalla smaterializzazione corporea nei meandri virtuali dei pixel digitali (quindi in un’ozzonte spirtuale interamente priogrammabile).

E arriviamo al segmento più atteso, il più convincente, firmato da Apichatpong Weerasethakul (Palma d’oro a Cannes nel 2010 con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti) in quella che sembra una riacquisizione della spiritualità dell’immagine. Siamo in una piazza: luogo simbolico, dove tutto ri-tranasita per essere ri-formato. E’ una piazza in ristrutturazione, infatti, con al centro, tra le macerie, il monumento di Sarit Thanarat (controverso dittatore thailandese negli anni ’60). I segni del potere passato si impastano ai suoni della città (Song of the city è il titolo) riconsegnando alle macerie una nuova vita. I personaggi che interagiscono appartengono al passato del regista – i protagonisti di Tropical Malady e la macchina per dormire di Cemetery of Splendour – rendendo complesso e stratificato ogni riferimento. Tra memoria condivisa thailandese e passato del cinema thailandese questa un canzone della città allude ancora una volta alla spiritualità originaria che alberga nell’uomo e può trovare spazio tra le immagini. Come?

Questo discontinuo e bizzarro progetto, allora, rende ancora più evidente come in tutte le latiduni (seppur con risposte molto diverse) le domande che il nuovo millenno ci pone sono le stesse: lansia per un futuro tutto da disegnare e per i nuovi dispositivi di controllo che creano nuovi poteri. Il cinema sembra suggeririci ancora una volta di rifugiarci nelle pieghe emotive delle immagini per restare umani: ascoltare, dormire, sognare, come in quella Song of the City che ascoltiamo nel bellissimo tappeto sonoro sui titoli di coda del film…

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