#Cannes2018 – Asako I & II (Netemo Sametemo), di Ryusuke Hamaguchi

Non c’è bisogno di un terremoto, perché le scosse disegnano ogni giorno i movimenti della crosta terrestre. Hamaguchi incontra il meraviglioso quotidiano nella normalità del rischio. In concorso

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Forse il momento più potente di Asako I & II è la scena in teatro. Appena prima che cominci lo spettacolo tratto da Ibsen, c’è un terremoto. Salta l’illuminazione della sala, l’inquadratura è completamente oscurata. Per quasi un minuto non vediamo più nulla, solo il boato della scossa e le grida del pubblico, mentre qualche lampo di luce ne coglie il panico. È una scena che mi riporta a un ricordo del terremoto dell’Irpinia, nel 1980. Durante la trasmissione radiofonica di una stazione locale, il fragore del sisma si sovrappone al liscio che sta passando in quel momento, fino a coprire ogni suono e ogni altra percezione. Arriva sempre, prima o poi, un istante che stravolge il tempo, il flusso “normale” delle cose. Dopo il mondo ritorna a muoversi, ma ruotando sul perno di un asse stravolto.

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Quest’immagine del terremoto scorre da tempo sotto la superficie del cinema di Hamaguchi, che ha già documentato i luoghi del sisma del Tohoku del 2011 (Voices from the Waves) e che pure qui, in quest’ultimo film, decide di passare ben due volte per Sendai, per incontrare le macerie e ancor più la vita che continua. Ed è un’immagine che svela alla perfezione il profondo di questa storia d’amore libera e dall’aria un po’ folle. L’attimo eccezionale che irrompe nell’ordinario, il mistero dell’incontro, quella scossa elettrica che passa, fulminea, da cuore a cuore e ridisegna la curva del mondo fino ad allora conosciuto. Come quando Asako incrocia per la prima volta lo sguardo di Baku. Tempo congelato, movimento azzerato, mentre esplodono i fuochi d’artificio di quattro mortaretti da bambini. Ma il rapporto tra due persone passa sempre, prima, attraverso le montagne russe del campo-controcampo, con il rischio perenne di smarrire l’altra parte, l’immagine di raccordo. Baku scompare e Asako resta sola, col cuore spezzato. Finché, dopo due anni, non incontra un altro ragazzo, Ryohei, che assomiglia come una goccia d’acqua al suo primo amore, ma ha un carattere completamente diverso, più solare, aperto, gentile. Con lui, Asako sembra ritrovare la pace. Ma è vero amore o è solo l’ombra di uno spettro? E cosa accadrebbe se tornasse Baku a riprenderla?

Questa storia di doppi, fantasmi e identità sovrapposte potrebbe scivolare facilmente nel noir più cupo e fatale. E, in effetti, Hamaguchi sembra voler costeggiare i confini di un altro genere, disseminando nell’arco del racconto tutta una serie di piccole esplosioni, momenti di tensione che scuotono la normalità e che lasciano presagire l’incombere del dramma. Come l’incidente di moto, la sfuriata di Kushikashi che se la prende con la recitazione di Maya, come il terremoto appunto, o il gonfiarsi delle acque del fiume dopo un temporale, con la minaccia di un’esondazione. Ma non c’è mai davvero necessità di calcare la mano, di uscire dalla trasparenza quotidiana di un cinema che ha assimilato alla perfezione tutta una linea della tradizione giapponese, da Ozu a Kore-eda, pur se declinata con una sensibilità personale. E, infatti, dopo le cinque ore del precedente Happy Hour, qui Hamaguchi lascia incrociare le suggestioni nostalgiche e ironiche dei manga sentimentali, un’estetica pop trattenuta e leggermente distorta, richiamata in causa anche dalle musiche di tofubeats, con i segni del reale che vengono dalla sua esperienza di documentarista. Più, forse, pudichi riferimenti al grande cinema hollywoodiano, come la scena della ricerca del gatto sotto il temporale che riporta a Colazione da Tiffany. Sono lievi variazioni che non intaccano quella trasparenza, eppure le donano un altro dinamismo, traiettorie più curve. Come piccole scosse telluriche, appunto.

Hamaguchi racconta il meraviglioso quotidiano nella normalità del rischio. Alla fine, il grande dramma c’è sempre. Ma è un dramma semplice, fa parte della natura delle cose, del modo in cui viviamo la passione o ci illudiamo del destino, del modo in cui confondiamo l’egoismo con l’amore e le scelte con una sentenza definitiva. Non c’è bisogno di un grande terremoto, perché le scosse disegnano ogni giorno i picchi e le cadute della crosta terrestre. E sebbene le storie d’amore debbano rispondere a un programma, per cui alla fine ci ritroviamo per forza a condividere lo spazio della stessa inquadratura, gli occhi vanno sempre verso il fuoricampo del futuro. Fa paura, ma è comunque bello. Il mondo è strano. Per fortuna.

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