#Cannes2018 – En guerre. Incontro con Stéphane Brizé e Vincent Lindon

In concorso a Cannes il nuovo film di Stéphane Brizé, ancora una volta interpretato da un incredibile Vincent Lindon: storia di rabbia e conflitti sociali (e umani) tra operai e “padroni” dell’oggi.

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Il regista, sceneggiatore e attore francese Stéphane Brizé aveva già riportato a Cannes grossi consensi con il suo La loi du marché (2015), storia di incredibile verità e di sotterranea violenza del quotidiano che metteva al centro il suo storico attore “feticcio”, Vincent Lindon (Mademoiselle Chambon, Quelques heures de printemps), qui nei panni di un cinquantenne disoccupato e con famiglia che ben presto si sarebbe trovato coinvolto in una situazione (lavorativa) a dir poco complessa sul piano più intimamente morale. Silenzioso ma incredibilmente potente per espressioni del volto e gesti – sempre osservato con pazienza dalla macchina da presa di Brizé – , per questa interpretazione Lindon vinse – e giustamente – la Palma come migliore attore nell’edizione 2015 del Festival. Ora, di nuovo insieme, la coppia infallibile Brizé/Lindon torna a Cannes – in concorso – con un altro film che parla dei temi più urgenti e drammatici della nostra storia (sociale e umana) contemporanea, dalla disperazione per uno stato faticoso di disoccupazione all’arduo rapporto tra impiegato e dirigenti, il quale spesso conduce a scontri e tragiche ingiustizie sociali.
Si tratta dell’attesissimo En guerre (At War è il titolo internazionale), che uscirà nelle sale francesi proprio oggi – 16 maggio – , dove Brizé addenta con il suo solito sguardo sensibile sul reale più vero e drammatico, la storia di un gruppo di operai che lottano contro i dirigenti della loro fabbrica in chiusura, capitanati da un energico Laurent Amédéo (Lindon, appunto), loro portavoce nel confronto serrato contro coloro che hanno violato gli accordi presi in precedenza per salvaguardare il lavoro di tutti i 1100 impiegati della fabbrica Perrin. Brizé, dunque, torna a raccontarci uno stato – doloroso – del mondo attraverso il suo sguardo cinematografico, accompagnato dallo stesso team di professionisti che contribuirono al successo del 2015, dallo sceneggiatore Olivier Gorce (presente anche lui all’incontro con la stampa), al montaggio di Anne Klotz e alla fotografia di Éric Dumont.

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All’incontro con la stampa riunita a Cannes, si chiede innanzitutto a Brizé se ci sia stato un evento in particolare a spingerlo verso un tale racconto “di rabbia”. Questa la lunga e appassionata risposta del regista francese: «Sul piano personale non sono in collera… È piuttosto un agglomerato di eventi, ma forse ce n’è uno che ha preceduto la decisione, ossia le immagini del caso della “camicia strappata” di Air France, un’immagine importante apparsa sui media del mondo intero. La rabbia è diventata violenza; la parola, la collera e le rivendicazioni dei salariati diventano in questa circostanza assolutamente incomprensibili, perché tutti si mettono dalla parte di chi ha avuto la camicia strappata. Il lavoro del regista e dello sceneggiatore comincia in quel momento: cosa si è fatto a degli uomini e donne perché possano arrivare a questo punto di incandescenza della rabbia? Qui è cominciato il nostro lavoro che – per non fare un copia/incolla della storia di Air France – è stato inserito nel contesto industriale; lì è avvenuto l’incontro con Xavier Mathieu, il quale era il leader sindacalista di un’impresa che aveva subito la chiusura totale. Xavier ci ha raccontato la sua battaglia “dall’interno” (l’esterno era stato già mostrato in un documentario) e successivamente, con Olivier Gorce, abbiamo incontrato dei sindacalisti, avvocati, salariati, ma anche esperti (come Olivier Lemaire)… Si è parlato con loro anche di emozioni… Per costruire una materia del reale, una parola la più oggettiva e onesta possibile e, infine, per condurre lo spettatore a porsi la domanda se non si “calpestino le teste” nel nostro mondo di oggi».

Dopo Brizé, arriva il momento del grande interprete Vincent Lindon, al quale si chiede un’opinione personale sul dibattito sociale affrontato in film “impegnati” come questo En guerre: «Trovo che convocare film come questi a Cannes sia anche un modo di fare della politica, di mostrare al pianeta intero una fotografia del mondo e ciò che accade oggi… Usare la settima arte per mostrare che la cultura è molto importante e che con essa si può risvegliare, prevenire e informare la gente più che con le normali informazioni: è per questo che amo partecipare a questi film! A volte c’è uno spirito molto complesso che fa in modo che si resti sempre sconvolti quando qualcuno di una classe sociale si cimenta nei problemi di qualcuno che appartiene a un’altra classe sociale; c’è sempre qualcuno che viene a dirti che non è quello il tuo posto: ma perché? Non l’ho mai capito! Voglio farlo e basta! Sono fiero di potere provare ad aiutare chi è più in difficoltà di me. La mia passione sono le persone: il più grande museo, libro o viaggio che vorrei fare è parlare con le persone! Nel film mi sono lasciato andare, e questo mi ha dato la forza di interpretare il personaggio e credere di somigliargli».

Dopo le lunghissime e argomentate risposte di Brizé e Lindon, il confronto con la sala zeppa di giornalisti si fa incandescente quando qualcuno, riferendosi al film e allo stile del regista, tira in ballo la parola “reportage”, provocando la reazione quasi sbigottita di Brizé: «Qui non si tratta di una drammaturgia da reportage: integro il reportage televisivo nel film, ma trovo che sia incredibile che un giornalista parli di “reportage” per la forma della mia finzione! L’immagine del reportage non ha assolutamente niente a che vedere con l’immagine finzionale del film, la quale con la sua stessa drammaturgia riesce a illuminare ciò che il reportage non mostra». Dunque, è questo il momento esatto in cui Brizé espone chiaramente la sua idea di cinema e fiction: «Se c’è qualcosa che legittima le immagini di finzione è che queste vengono a riempire ciò che il reportage non riesce a cogliere, perché non ne ha il tempo e non si prende il suo tempo, andando a tradire qualcosa. Sulla forma, invece, c’è l’intenzione di tradurre un’idea di reale, che però non è il reale ma solo una sua idea».

La parola torna, a oltre metà incontro, all’attore Lindon, che racconta quale sia il suo lavoro sul personaggio in generale: «Ci sono attori che compongono e altri che incarnano. Io non penso di essere bravo nel comporre, quindi cerco laddove posso, cioè dentro di me perché mi appartiene. Provo ad avvicinarmi al “fantasma” che mi faccio del personaggio e lo incarno: ciò che mi interessa è incarnare». In questa circostanza – come fu anche per La loi du marché – Lindon è circondato da un gruppo di attori cosiddetti “non professionisti”, con i quali tuttavia il lavoro del regista e dello sceneggiatore è stato identico a quello impiegato con gli attori di professione: «Li scelgo tutti per la stessa ragione: perché sono persone che – come Lindon – non compongono ma sono! Hanno la capacità di “essere” mentre vengono riprese». E, a riprova di questo e di quanto detto già a inizio conferenza, Brizé afferma ancora una volta energicamente: «La mia finzione non è nutrita che di realtà! Queste situazioni drammatiche esistono davvero nella vita, anche se non ve ne sono le immagini: il cinema permette di creare queste immagini».

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