#Cannes2018 – Fahrenheit 451, di Ramin Bahrani

Bahrani e Amir Naderi adattano per HBO il romanzo di Ray Bradbury, un inno al sapere, come la vita, da liberare nel mondo, da lasciar scorrere nella realtà, nei suoi segni pulsanti. Fuori Concorso

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Ramin Bahrani la distopia l’ha sempre frequentata, anche se nel presente. Man Push Cart, Chop Shop e persino 99 Homes sono in fondo visioni della realtà sociale e politica contemporanea guardate con l’occhio pieno d’angoscia per un assetto del mondo profondamente negativo. Nulla di strano, dunque, che si ritrovi alle prese con questa nuova versione di Fahrenheit 451, realizzata per la HBO e scritta (come già il precedente 99 Homes) assieme a Amir Naderi. L’impianto visivo è veterofuturistico, qualcosa a metà tra l’assalto al cielo dell’estetica cyberpunk, con cromatismi e videofanie ad animare le facciate dei palazzi, e la torsione pop innescata in quell’estetica da svariati franchise contemporanei come Hunger Games o Divergent. In questa nuova versione di Fahrenheit 451 la sovversione dell’ordine costituito ad opera delle forze resistenti si applica al classico immaginario partigiano: c’è la falange in lotta sotterranea contro la forza d’urto di un sistema di controllo sociale pervasivo, in stile orwelliano, che governa l’odio diffuso e insiste tanto sulla sfera pubblica quanto su quella privata dell’individuo. La matrice letteraria di Ray Bradbury si adatta insomma ai 65 anni dalla sua pubblicazione così come Bahrani scavalca i cinquant’anni che sono passati dalla storica versione truffautiana senza farsi carico di omaggi o timori. A garantire il grado di cinefilia che scorre nel sangue del film c’è la firma di Amir Naderi, uno che parla a colpi di Cut e che, per amor del cinema, da sempre si fa prendere a pugni dalla vita e per guarire si fa proiettare sulle ferite le immagini dei suoi capolavori…

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L’esatto opposto delle mendaci proiezioni che occupano le facciate dei palazzi nel distopico mondo di Fahrenheit 451: la torsione tra segno grafico e segno visivo, tra immagine e parola scritta, è del resto una delle chiavi profonde di questo film, dal momento che, nella neolingua inventata da Naderi e Bahrani, i libri vengono chiamati “graffiti”, una via di mezzo fra la parola e l’immagine, dove alla pagina degli scrittori si affianca la parete dei graffitari. C’è da dire, d’altronde, che l’inversione logica nel segno del fuoco, da spegnere/appiccare, è coerente con il dettato di Bradbury, i cui pompieri invece di domare le fiamme, le portano. Ma qui l’attacco col fuoco sul pensiero, sulla narrazione, sulla trasmissione di informazioni è il punto focale di un film che vive piuttosto nel dissidio dell’immaginario sempre più impoverito e svilito nella sua pervasività. La lezione impartita dal capitano Beatty di Michael Shannon al suo ribelle pupillo Guy Montag (il Michael B. Jordan di Ryan Coogler: da Fruitvale Station a Creed) persegue la linea di un apprendistato all’espropriazione già affidatagli da Bahrani in 99 Homes. Solo che qui non sono da espugnare (finanziariamente) le pareti della case, ma il loro contenuto, fatto di storie, vita, sapere: per quanto Bahrani insista con puntigliosa sofferenza nel mostrare i titoli dei capolavori che vengono dati alle fiamme dai poliziotti pompieri, ciò che arriva è in realtà un dolore che va al di là dell’oggetto libro in sé e del suo contenuto, investendo piuttosto la sfera esistenziale della vita, il rapporto intimo, privato, necessario tra il libro e il suo lettore, che va in fumo. L’idea stessa dell’Omnis progettato dai ribelli, ovvero di un frammento di DNA in cui sono contenuti tutti i libri da salvare, affidata a un uccello da liberare nel cielo affinché il sapere si diffonda ovunque liberamente, percorre la direzione opposta rispetto alla materialità del graffito, alla sostanzialità del libro e dell’immagine stessa. Il sapere, come la vita, è da liberare nel mondo, da lasciar scorrere nella realtà, nei suoi segni pulsanti di suoni, colori, aria… Acqua, vento, sabbia direbbe Amir Naderi…

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