#Cannes2018 – La lotta, di Marco Bellocchio

Ultima, vertiginosa, scintilla di cinema firmata Marco Bellocchio – cortometraggio girato nell’ambito del Progetto “Fare Cinema” – che ci immerge nuovamente nelle acque del Trebbia. Quinzaine.

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In uno dei momenti di cinema più potenti di questi ultimi anni, quello della “prova” in Sangue del mio sangue, la presunta strega Benedetta viene incatenata e lanciata nel fiume Trebbia per accertare inequivocabilmente se ha Il diavolo in corpo. Insomma l’acqua, il medium primo della vita, viene riconvocato come schermo ultimo per riflettere la verità. E in questo struggente tuffo, l’ennesimo salto nel vuoto filmato da Marco Bellocchio, si configura il contrasto insanabile e primigenio del suo cinema: lo scontro tra le strette gabbie (culturali, sociali, familiari) e la rabbiosa evasione nelle passioni (religiose, politiche, amorose). Immergendosi nell’acqua sotto le note di Nothing Else Matters Bellocchio ci invita a una mediazione estetica tutta cinematografica per attestare noi la verità ultima su Benedetta. Un sentimento che attraverserà le epoche, tra le due rive del Trebbia, attualizzando una lotta originaria che non terminerà mai.

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La lotta, quindi. In questa vertiginosa scintilla di cinema – l’ultimo cortometraggio girato nell’ambito del Progetto “Fare Cinema” collegato al Bobbio Film Festival – Bellocchio ci immerge nuovamente in quelle acque. Un ragazzo sta dormendo in riva al fiume; un fuori campo sonoro anticipa l’arrivo di un plotone di soldati tedeschi che inizia a sparare inseguendolo; Tonino si tuffa, proprio come Benedetta, cercando la libertà attraverso lo schermo (l’eterno Atalante) tra riflessi di luce e fantasmi di memoria. Perché il tempo di Tonino è quello eternato dal sentimento – il 25 aprile, la Resistenza, i monumenti di Bobbio ai suoi caduti e i cimeli di una memoria che sembra sfumarsi nel panorama mediale del nuovo millennio –, ma continua a lasciare tracce presenti. La lotta partigiana come mito popolare e condizione esistenziale, due dimensioni che sfuggono alla ricostruzione storica eppure la testimoniano sentimentalmente.

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Sangue del mio Sangue (2015)

Tonino riemerge da quelle acque oniriche, oggi, tra ignari bagnanti in cui riconosciamo Piergiorgio Bellocchio (il figlio alter-ego-testimone del regista). È un giorno di festa, i fuochi d’artificio calamitano gli sguardi e i piccoli display degli smartphone, mentre Tonino va controcorrente avvicinandosi al monumento ai caduti e recitando una delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Insomma per Tonino i monumenti (la resistenza del sentimento) non sono mai diventati documenti (di un passato remoto), ma significano ancora nel presente (regala tutti i suoi soldi a un migrante), sono diventati sangue del suo sangue. Ecco che il vecchio orologio della memoria che ha al polso, inceppato dall’acqua che ne ha fermato il tempo, potrà ripartire solo attraverso un amore fugace e impossibile (quello per Barbara Ronchi, la madre di Fai bei sogni…).

Stacco. Tra le due rive del fiume lo sguardo si perde ancora, incapace di scindere memoria storica ed esperienza contingente, madre e legge, baci rubati e fughe disperate. Perché ogni inquadratura filmata da Bellocchio è cinema nonostante tutto (nonostante i supporti, i budget, le piattaforme di fruizione, i metraggi, ecc, ecc), ogni virgola di questo sublime romanzo filmato (iniziato con I pugni in tasca in poi) è frutto di uno sguardo sul mondo moderno e atemporale eppure capace di illuminare ogni epoca con la fame di un ventenne al suo primo ciak. Rituffiamoci ancora. Perché nell’acqua del fiume Trebbia solo i folli e i puri possono vedere, donandosi fiduciosamente all’inquadratura come ultimo schermo possibile che renda cinema ogni sogno di libertà…

“… bisogna avere fantasia, in continuazione. Da ragazzi, io e Pippo, per far colpo sulle ragazze, ci buttavamo da un ponte altissimo su un fiume gelido e profondo. Faceva paura. Così… solo per dimostrare che avevamo coraggio. Io chiudevo gli occhi, la bocca e poi con le mani le orecchie e il naso… non sapevamo fare altro e così continuavamo a buttarci giù, in fondo“. Lou Castel in Gli occhi, la bocca (1982)

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