#Cannes2018 – La rinascita: il vento soffia a Oriente

Una gran bella edizione per il concorso con le tre vette che arrivano da Giappone, Cina, Corea e il cinema italiano in forma. E poi un’altra bellissima Quinzaine. Waintrop lascia una pesante eredità

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Se l’edizione 2017 sembrava arrivata a un punto di non ritorno, arriva per Cannes 2018 una mutazione sensibile e sorprendente. Di tutti i cambiamenti avevamo già parlato nell’articolo Cosa succede a Cannes dove avevamo stabilito di tirare le somme alla fine del festival. Ecco, tranne per la questione Netflix ancora irrisolta e che denota una chiusura del festival sul fatto che il cinema e la sala debbano essere per forza legati e non esistono altre soluzioni, abbiamo assistito a un’edizione sorprendente, ricca, che ha portato in gara molti cineasti affermati che sono apparsi nel pieno della loro forma (se non addirittura presenti con il loro film migliore come nel caso dei due italiani Dogman di Matteo Garrone e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher), che ne ha rivelati altri che in altre occasioni non avevano convinto (il russo Kirill Serebrennikov con Leto), ha fatto nuove scoperte (il giovane cineasta belga Lukas Dhont con Girl in Un certain regard che si perde solo nella parte finale ma è più di una promessa). O anche gli estremismi cinefili di Under the Silver Lake di David Robert Mitchell, un cinema che ha spiazzato, infastidito, ma che è sicuramente modernissimo e (ri)mette in discussione il nostro sguardo. O il ritorno moraleggiante ma pieno di rabbia fisica  di Spike Lee con Blakkklansman che ha ottenuto il Grand Prix.

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Ma il vero colpo di fulmine rinnovato arriva da Oriente. Hirokazu Kore-eda, Jia Zhang-ke, Lee Chang-dong. Tre grandissimi cineasti che hanno realizzato, contemporaneamente, alcuni dei film più riusciti delle rispettive carriere. Giappone, Cina, Corea. I nomadismi con tracce di realismo poetico di Shoplifters premiato con la Palma d’oro. l’inarrestabile mutazione degli spazi e dei sentimenti in Ash Is Purest White, lo scarto sociale, le voci dal Nord e l’ossessivo thriller voyeuristico di Burning. E poi la Francia: il war-movie, il bombardamento sonoro nella lotta di classe come due eserciti contrapposti di En guerre di Stéphane Brizé, uno dei più grandi cineasti contemporanei. Tutte le passioni teatrali, cinematografiche, la malattia filmata come estremo ultimo atto d’amore di Plaire, aimer et courir vite di Christophe Honoré, un cineasta già riconoscibile dai titoli di testa in un film che sembra arrivare dagli anni ’90. Quasi un Cyrill Collard di Notti selvagge o un Paul Vecchiali di Once more – Ancora. E poi Godard (!!!). Il suo Le livre d’image. Amato da (quasi) tutti noi e non solo. Le cinéma, Hawks, La guerre, Ophüls. Mah. Resto in disparte.

Tra 21 titoli del concorso, dalle nostre pagelle ben 14 (quindi i 2/3) sono andati oltre al 6. E 4 sopra l’8. E la media complessiva è di 6.35, forse tra le più alte di sempre.

Poche le delusioni di un Palmarès sorprendente. A iniziare dal bellissimo regalo di Shoplifters ma anche quello per Marcello Fonte, protagonista di Dogman. Ha lasciato freddi invece il celebrato formalismo di Cold War di Pawel Pawlikowski che ha ottenuto la miglior regia. E la povertà da esportazione degli slums di Beirut di Capharnaüm della cineasta libanese Nadine Labaki che si è dovuta accontentare del Gran Premio della giuria quando alla vigilia il film era dato per favorito. Non ci si spiega molto la Palma per l’interpretazione femminile, andata a Samal Yeslyamova per Ayka. Si vedeva che questo poteva (e doveva) essere l’anno di Zhao Tao, la musa del cinema di Jia.

E poi, ancora una strepitosa Quinzaine. Che riporta un corto di Bellocchio davvero fuoriquota (La lotta), uno dei Gaspar Noé più estremi con Climax, due cineasti italiani diversissimi ossia Savona (Samouni Road) e Zanasi (Troppa grazia), la frantumazione della commedia francese con tracce di Besson e una ronde impazzita del sempre più sorprendente Pierre Salvadori (En liberté!) affiancato da due altri ottimi titoli francesi (Le monde est à toi di Romain Gavras e Les confins du monde di Guillaume Nicloux) e infine la bella conferma di Debra Granik con Leave No Trace, in parte gemello ma anche spiazzante come Un gelido inverno. Per Édouard Waintrop, che in questi anni ha fatto un bellissimo lavoro, un addio commovente nella serata di premiazione con la lettera di Bertrand Bonello. Lascerà una pesante eredità. Fare meglio sarà difficile.

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