#Cannes2018 – Long Day’s Journey into Night, di Bi Gan

Cinema delle attrazioni, che punta sul raffinato incanto della visione e sui prodigi della “ripresa”. Ma che smarrisce nella prova di forza l’emotività sfumata del racconto. Un certain regard

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Un amore perduto nel corso del tempo, ma non dimenticato. Perché alcuni ricordi faticano a sfumare e la malinconia dei giorni andati è il segno della loro persistenza. Il killer Luo Hon vive nel passato. Come il cinema, sembra dire Bi Gan, che già in apertura, con quella voce off “letteraria”, crea i toni e gli umori del mondo poetico di questo suo secondo film, aggrappato disperatamente alle mitografie del tempo che fu. Una donna, Wan Qiwen, femme fatale incontrata anni prima e smarrita nelle notti oscure dei bassifondi, o forse nelle fughe terminali di Wei Tang “Black Hat”… Un misterioso libro verde come unico segno materiale del suo passaggio. Un addio o una promessa? E un amico, Wildcat, condannato a morte da un mondo che non perdona.

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Ci sono tutte le tracce per il più classico dei noir, ma Bi Gan guarda più alle macerie del tempo passato di Wong kar-wai, rimettendo in circolo suggestioni che vanno da As Tears Go By a In the Mood for Love. Con un lavoro maniacale sulle scenografie, gli abbigliamenti e sulla superficie dell’immagini che trasudano di un’umidità elettrica, grazie all’apporto di ben tre cinematographer (Yao Hung-I, Dong Jingsong e David Chizallet). Dunque, Bi Gan gioca tutto sul raffinato e ingannevole incanto della visione. La narrazione scorre tra gli spazi e gli anni, lungo le traiettorie confuse dei personaggi e delle connessioni, quasi con l’esclusivo motivi di mostrare i piaceri e le vertigini della ripresa. Droni, voli pindarici, movimenti di macchina che si dipanano in sinuosi long take che sembrano voler incarnare proprio il tentativo estremo di trattenere il tempo, di tenerlo stretto a sé. Fino al mirabolante piano sequenza in 3D che occupa tutta la seconda parte del film e che segue Luo nel suo lungo viaggio nella notte, tra i mondi e le sensazioni, fino all’incontro decisivo con Wan. Quando comincia quel piano sequenza, il protagonista è al cinema. E quindi Bi Gan mostra il suo “programma”. I pochi spettatori attorno a Luo indossano gli occhiali 3D e quello è il segno che noi, da quest’altra parte, dobbiamo fare altrettanto. La distanza dello schermo è saltata e l’immagine sogna di farsi totale, di tirarci dentro e incorporarci. Cinema delle attrazioni, a pieno titolo. Che prende posizione su questioni di idee di visione e di strategie produttive. Il cinema per me è questo, dice Bi Gan. Ma quella sua infinita, estenuante prova di forza finisce per scontrarsi con le intenzioni e i sensi del racconto, lacerandone definitivamente l’emotività sottile, quel suo muoversi tra note sfumate, nell’effimero delle emozioni e dei rapporti. E se ci si illude per un attimo di andare alla deriva, anche quella suggestione è cancellata dal controllo assoluto di una forma che detta le prospettive e le posizioni. Bi Gan va da tutt’altra parte rispetto alle tracce dei “vecchi” che avvertono come non ci sia neanche più bisogno di girare, che non si tratterà nemmeno più di andare (come diceva qualcuno)… Insegue la poesia con la tecnica. E la perde per sempre.

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