#Cannes2018 – Weldi, di Mohamed Ben Attia

Mohamed Ben Attia ci immerge nell’odissea di un padre e nella disgregazione di una famiglia, cercando di ragionare sulla complessità del presente senza mai fornire facili soluzioni.

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Dopo il convincente esordio con Hedi (presentato in concorso nella Berlinale 2016) ecco tornare alla regia il giovane Mohamed Ben Attia, uno dei più interessanti cineasti nordafricani di quest’ultimo decennio. Una generazione, questa, che non può evidentemente fare a meno di ragionare sulle difficili condizioni politico-sociali di quell’area così strategica a livello geopolitico (a tal proposito ricordiamo anche la bravissima Sofia Djama). E allora: dalla scintilla della primavera araba nella Tunisia del 2012 filtrata dalle peripezie amorose del giovane Hedi, passando per il difficile confronto con il terrorismo internazionale di matrice jihadista in questo Weldi, la tensione intimamente politica dei film di Attia si fa sempre più densa e stratificata. Una tensione mai estetizzante e tantomeno propagandista, perché per Attia il cinema rimane ancorato “alle storie della gente semplice“. Anche in questo caso il grande rimosso emerge pian piano, noi spettatori siamo invitati a condividere un frammento di vita di una famiglia tunisina in difficoltà economica che sta affrontando anche la problematica crescita del figlio. Il padre Riadh si preoccupa delle continue emicranie del diciannovenne Sami, del suo difficile inserimento sociale, della sua evidente apatia che non riesce proprio a spiegarsi. Lo psichiatra la chiama depressione, ma ci sono forti resistenze a trattarla come tale. Riadh decide allora di seguire Sami, e noi con lui, in un costante e lento pedinamento – la matrice dardenniana del cinema di Attia si conferma in pieno – sino alle porte dell’orrore che si spalancano improvvisamente.

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Dove? Su uno display ovviamente: dai social network Riadh capisce che Sami è scappato in Siria per arruolarsi in un’organizzazione terroristica. Lo schermo del pc, l’interfaccia delle guerra delle immagini (del terrore) che il mondo intero sta affrontando nel nuovo millennio, diventa lo spazio obbligato di comunicazione anche per il vecchio Riadh. Ma non basta. L’uomo deve partire, vuole riportare il figlio a casa, impiegando i pochi averi della famiglia per salvare Sami da una scelta inspiegabile ai suoi (e ai nostri) occhi. Si attraversa la Turchia e poi il confine siriano, mettendosi in contatto con uomini sempre più oscuri e dalla dubbia indentità, portando via la luce dall’inquadratura: il bagliore della vita tunisina s’immerge ora in un metaforico viaggio nel “buio”. Attia dimostra già una granitica etica dell’inquadratura, spingendo lo spettatore a farsi domande sull’esperienza contingente dei suoi personaggi e solo dopo sui massimi sistemi che essa (indirettamente) implica.

Ma Riadh incontra veramente Sami? O è stato solo un sogno? Non importa: Mohamed Ben Attia ci immerge nell’odissea di un padre e nella disgregazione di una famiglia, cercando di ragionare sulla complessità del presente senza mai fornire facili soluzioni. Certo il film non riesce a mantenere quella fortissima tensione emotiva di Hedi, sfilacciandosi un po’ nella parte finale in troppe traiettorie e troppi detti. La delicatissima materia trattata, comunque, non fa cadere mai il film in sterili retoriche di circostanza: Weldi racconta la vita di gente semplice in un tempo complesso e Mohamed Ben Attia si conferma un regista da tenere d’occhio per il futuro.

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