#Cannes2019 – Bacurau, di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles

Un grande discorso politico che si muove tra i segni della cultura popolare e l’immediato futuro, tra un immaginario di “appartenenza” e un altro da grande canone occidentale. In concorso

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Bacurau è un film dalla lunga gestazione. L’idea risale ai tempi in cui Kleber Mendonça Filho presentava al Festival di Brasilia il suo cortometraggio Recife Frio, nel 2009. È lì che il regista e lo scenografo Juliano Dornelles cominciavano a immaginare le vicende di un piccolo, sperduto villaggio del nordest brasiliano: una sola strada, pochi abitanti impegnati a resistere contro la minaccia permanente della sparizione. Ma probabilmente le radici risalgono molto più indietro, affondano nell’immaginario di due autori pernambucani cresciuti con le tradizioni oscure e le storie infuocate del Sertão, terra di cangaçeiros, i banditi “sanguinari” in lotta contro i soprusi dei Coroneis, i proprietari terrieri che dettavano legge sommaria in nome dei propri interessi. Fatti e leggende che vivono tra documenti, fotografie, canzoni , racconti, fumetti, film. Joaquim Gomes, Zé Pereira, Antônio Silvino, il mitico Virgulino Ferreira da Silva detto Lampião… uomini armati contro il potere del latifondo, della corruzione elitaria, del colonialismo più subdolo.

Ecco, a questo immaginario d’appartenenza, Kleber Mendonça e Juliano Dornelles ne sovrappongono un altro puramente cinematografico, trasversale e da “grande canone occidentale”, per così dire, fatto di orizzonti western che si aprono a suggestioni sci-fi. Siamo in un futuro così prossimo che non c’è un vero e proprio scarto tecnologico rispetto all’oggi. Tanto che gli abitanti di Bacurau, “naturalmente arretrati”, utilizzano i nostri stessi mezzi: smartphone, tablet, connessioni internet più o meno veloci, segnali di campo precari. I dispositivi più aggiornati stanno tutti dall’altra parte: appartengono ai poteri che hanno deciso di sfruttare con qualsiasi mezzo le risorse idriche del territorio, infischiandosene degli abitanti. Che rivendicano il diritto all’anormalità del loro stile di vita che rimescola e attraversa i tempi con una libertà potenzialmente destabilizzante. Qui la legge è fatta di riti e tradizioni, di pratiche religiose che si confondo con usi ancestrali, si piega alla spontaneità di una sessualità mobile, oltre i limiti di genere, ai fumi dell’alcool e alla mistica visionaria delle droghe naturali. Una promiscuità di violenza e santità, furibonda e vitale, che rischia di deflagrare quando scompare la grande madre della comunità, l’anziana Carmelita. Persino donna Dominga/Sônia Braga, il medico del villaggio, sembra cedere alla follia, presagendo l’inizio della sciagura. Difatti, quando entra in campo un commando di professionisti, guidati dal diavolo biondo Udo Kier (sempre più “mercenario” apolide del cinema), per far piazza pulita dei bifolchi, la situazione precipita. Al punto che bisogna richiamare a Bacurau l’ultimo gancaçeiro transgender, il terribile Lunga.

Mendonça Filho e Dornelles cercano il punto di connessione tra i segni della cultura popolare e le visioni dell’immediato futuro. Come nel momento straordinario in cui ai volteggi della capoeira fa eco una musica elettronica cupa e minacciosa. E incontrano le immagini di un’avanguardia così ambiguamente standardizzata da apparire rétro, come quei droni a forma di UFO anni ’80. Del resto è proprio la colonna sonora del film a rendere più evidente questa andata e ritorno tra la tradizione e la contemporaneità, tra i cantastorie popolari, le canzoni dei grandi tropicalisti e le musiche di Mateus Alves e Tomaz Alves Souza. Ma poi è sul piano visivo che il film ha un andamento strano, schizofrenico e spiazzante. Le grandi inquadrature da formato panoramico hollywoodiano si accompagnano ai segni di una grammatica antica, come quelle assurde transizioni a tendina. Gli spazi e le cose aprono nell’apparenza realistica squarci di un war movie postapocalittico. Ed emergono, ovunque, gli spettri indelebili di una cultura “autoctona”, di un cinema fieramente terzo, novo, altro. Seppur riaggiornati alle esigenze di un tempo globale.

Quando il vecchio Plinio spiega ai ragazzi la geografia di Bacurau sembra di tornare agli inizi di Antonio das Mortes, col prete che racconta ai bambini la storia del Brasile. Ma su Google Earth il paese non c’è più. Bacurau si perde tra i sentieri polverosi alla frontiera della civiltà, è un buco della Terra. Nei fatti, perché inventato di sana pianta da Mendonça Filho e Dornelles, e nel racconto, perché cancellato “strategicamente” dalle mappe geografiche disegnate dalla precisione telecomandata dei GPS. Del resto, il suo nome è quello di un uccello notturno, che vive nascosto tra le tenebre e riappare all’occorrenza. Ed è proprio così che si deve fare, oggi più che mai. Bisogna nascondersi nei buchi della terra e da lì riemergere. Ripartire dai margini oscuri, dagli angoli ancora non mappati e omologati. Ancora una volta il locale come ultimo territorio dell’utopia. Occorre ritornare alle carte e alle armi antiche per esistere e resistere ancora, per riscoprire la propria posizione nel mondo. Che sia una storia di cangaçeiros, che sia un western o una visione fantascientifica, la questione fondamentale è sempre politica. Kleber Mendonça e Juliano Dornelles lo sanno bene. Perciò la loro parabola si infetta con la polvere della terra e con il sangue dei vinti. Mentre i segni si compongono in una nuova visione mitica, terribile, gioiosamente liberatoria. Che soffia su tutti i furori…

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