#Cannes2019 – Le daim, di Quentin Dupieux

Una commedia nera e assurda che si diverte a riflettere sul cinema. C’è grande intelligenza, ma si rimane sul piano della dichiarazione. Apertura della Quinzaine des réalisateurs

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All’inizio è strano: una serie di inquadrature, che dovrebbero essere tra le più classiche, neutrali e oggettive, lasciano intuire un occhio nascosto. Nell’incipit, i ragazzi che giurano di non indossare mai più una giacca, guardano direttamente in macchina. Ed è dalla prospettiva “innaturale” di un abitacolo vuoto che vediamo Jean Dujardin specchiarsi nel finestrino o uscire dal locale dove ha appena, letteralmente, buttato al cesso la sua tranquilla giacca di velluto a coste. Il cinema dichiara la sua presenza, dunque, e si definisce sin da subito come la questione fondamentale. La riflessione sul mezzo è il gioco a cui si diverte Dupieux. Per dire che l’occhio nascosto, più che essere quello di chi mira sull’obiettivo e spara il colpo, è quello freddo, impassibile e “amorale” della macchina.

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Del resto, Le daim è un film che vive di un’inquietante e residua vitalità dell’inanimato. A partire, ovviamente, dalla giacca di daino a frange che instaura il suo surreale dialogo con Georges e che diventa ben presto la vera protagonista del film, il motore narrativo principale. “Il mio sogno è essere l’unica giacca del mondo”: ed è da lì che prende le mosse tutto, l’esile filo narrativo del film che stiamo guardando e lo splatter che intuisce Adèle Haenel dietro le immagini amatoriali girate da Georges con la sua vecchia videocamera. Tutto prende la piega di una commedia nera e assurda, fino ad assomigliare a una vendetta perversa degli oggetti, delle cose che sfruttiamo e consumiamo. Ma non corriamo…

Dupieux ha un senso sicuro dell’umorismo, si muove tra il sarcasmo acido e il nonsense più libero e sgangherato. Per lui, il sorriso garantisce la tenuta del film. Ma si tiene a debita distanza da ogni lettura ulteriore, politica, ambientalista, psicologica che sia. Se c’è disagio è semplicemente nello scarto tra cià che guardiamo e il tono in cui viene mostrato. Il cinema, appunto. Ma anche qui si rimane a un livello base. Si tirano in ballo mille tracce, pratiche e formati, il digitale vecchio e nuovo, il mockumentary e il genere, l’improvvisazione e il dilettantismo che sono il vero trionfo della produzione orizzontale, il problema dell’etica dello sguardo, l’ossessione delle apparenze, sul modo in cui ci si percepisce o si viene percepiti. Insomma, c’è tutto, ma è come se ogni questione fosse solo enunciata, si esaurisce immediatamente sul piano della dichiarazione, al di là di ogni ragionamento o  di un’effettiva forza delle immagini. Si ha l’impressione di una serie di trovate intelligenti che sembrano altrettante strizzate d’occhio. Alla fine il gioco funziona, ed è quel che conta. Ma per durare quanto?

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