#Cannes2019 – Sorry We Missed You, di Ken Loach

Sembra quasi replicare Io, Daniel Blake. Ancora un attacco diretto al sistema britannico, reso esasperato dalla scrittura di Laverty ma con un’indignazione incontrollata ma autentica. Concorso

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Metodo Loach. Voce-off su schermo nero sui titoli di testa. E che sembra replicare, nella struttura, il precedente Io, Daniel Blake, Palma d’oro a Cannes nel 2016. Ancora un attacco diretto contro il sistema liberale britannico che strozza la vita delle persone. In Io, Daniel Blake era il protagonista che aveva bisogno dell’aiuto dello Stato a causa della sua malattia. In quest’ultimo Sorry We Missed You (titolo che prende il nome dal biglietto lasciato dal fattorino che consegna a domicilio ma non trova nessuno in casa) Loach prende a cuore la situazione di precarietà di Ricky e la sua famiglia. Che sogna di comprarsi una casa. E per inseguire questo desiderio fa di tutto. Dopo un periodo in cui è stato senza impiego o ha trovato solo occupazioni saltuarie, vede finalmente l’opportunità di lavorare per una società di trasporti per consegne a domicilio. Compra un  suo camion convincendo la moglie, assistente domiciliare, a vendere la sua auto. Ma la ditta controlla in modo pressante il suo lavoro. E in più il figlio maggiore gli crea numerosi problemi.

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L’inizio di questo ventisettesimo lungometraggio del cineasta inglese sembra quasi una duplicazione di quello di Io, Daniel Blake. Un colloquio in cui emergono la temporanea speranza ma che preannuncia già il calvario del protagonista. La frase-spot del suo principale: “Tu non lavori per noi, ma con noi”. Poi, un altro cammino cristologico dopo quello di Daniel Blake. Sempre a Newcastle. Senza speranza, ma caricato di troppe situazioni a causa soprattutto della scrittura di Paul Laverty. Dove il parallelismo tra la condizione lavorativa di Ricky e sua moglie e la rabbia incontrollata del figlio esasperano le forme del dramma individuale e collettivo. Portandolo a un punto limite come in Ladybird Ladybird. Il cinema di Loach ne è condizionato ma non si fa travolgere. Perchè ormai c’è l’impeto di un cineasta quasi 83enne che ‘ricorda con la rabbia’ del Free Cinema. Che tira fuori tutta l’anima dai suoi attori non professionisti. Che mette a nudo due elementi fondamentali: la mancanza di tempo e il controllo da parte degli altri. Impiegati-robot che lavorano in grandi catene online. Con le vite e quelle dei suoi familiari che sono controllate in ogni spostamento. Che non hanno neanche più il tempo di andare in bagno e devono fare i loro bisogni in una bottiglietta di plastica. Al tempo stesso anche la moglie sembra passare parte delle sue pause dal lavoro alla fermata dell’autobus. La dimensione privata sembra scomparsa. Sono rimasti solo i conflitti. Spesso accesi. Attorno allo stesso tavolino dell’abitazione. La complicità del cineasta ormai è incontrollata. Con sempre meno rigore ma con una grande passione. Che nella ribellione del ragazzo adolescente (contro la famiglia, contro il sistema) sembra replicare l’insofferenza di Billy Casper in Kes. E cerca dei provvisori angoli di paradiso. Anche illusori: Ricky che accompagna la moglie assieme i figli per un servizio domiciliare il sabato sera è un momento di contagiosa umanità. E nello scontro tra il protagonista tifoso del Manchester United e un uomo che riceve la consegna a domicilio fan del Sunderland si smarca per un attimo da Laverty con un dribbling degno di Il mio amico Eric e La parte degli angeli.

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