#Cannes68 – L’Ombre des femmes, di Philippe Garrel

L’ombre des femmes, di Philippe Garrel, apre oggi la Quinzaine des Réalisateurs. Come al solito passato e presente, politica e sentimenti, ombre e donne, impastano le immagini garrelliane

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L’ombre des femmes. E sì, a pensarci bene in questo titolo è riassunto tutto il cinema di Philippe Garrel: le ombre (d)e(l)le donne, le immagini e l’amore, due poli che si attraggono e respingono continuamente mentre si gioca la vita. Ennesimo tassello di un mosaico sempre più consapevole delle proprie modalità (ed eredità) estetiche: è come se con il passare degli anni i film di Garrel diventassero più “riflessivi”, forse meno istintivi, ma pur sempre in diretto contatto con le pulsioni vitali dell’istante presente. Le ombre, quindi. Pierre è un regista indipendente che tenta di girare un documentario sulla resistenza francese, intervista un vecchio partigiano e cerca di fondere la sua memoria personale (anche il padre era stato in prima linea contro l’occupazione nazista) con quella pubblica (l’immagine documentale che “serva”): il suo film si chiama “Lo spirito della resistenza”. Le donne, poi. È sposato con Manon, sua coautrice, ma il loro rapporto vive una strana quiete dietro la quale cova l’insoddisfazione e l’incomprensione che li fa deragliare verso nuovi incontri: lui mi guarda ancora, gli rinfaccia Manon.

J’entends plus la guitare? Come al solito passato e presente, politica e sentimenti, città e piccole stanze, impastano le immagini (ancora uno splendido e nitido bianco e nero) restituendo quell’intimità immersiva che Garrel ha sperimentato decenni prima dell’avvento del digitale. Ma parlando di Storia (la Resistenza) e di cinema (produrre un film senza soldi…) il Garrel del 2015 appare molto più ironico – complice anche la collaborazione in sceneggiatura con Jean-Claude Carriére, autore dal lungo curriculum buñueliano – e forse più disilluso rispetto al passato (quello dello straordinario cortometraggio Actua 1, del e nel 1968, proiettato oggi qui a Cannes).

Resiste, intatto, l’amore: tornano le ossessioni terminali di Un été brûlant e torna quella Jalousie figlia di una endemica immaturità maschile. La sala di montaggio dove immagini d’archivio erompono da un piccolo schermo, allora, diventa la “camera verde” di memoria dove politicasentimento risorgono indistinti: Manon piange appoggiando la mano su quella di Pierre. Silenzio. Lo stesso Archivio dove Pierre incontrerà Elisabeth, una nuova naissance de l’amour, ragazza che ha ancora rulli in 35 mm da trasportare (materia, cose pesanti…). E Garrel ritrova improvvisamente il tempo della Nouvelle Vague in una camminata godardiana o in una struggente voice over truffauttiana. Sovrimpressioni amorose: le insistite camminate di questo film rammemorano il passato e lo declinano al presente, sono l’inizio e la fine di ogni sequenza, sono i sentimenti che incontrando il movimento diventano proiezioni che ci sfiorano come esseri. Ancora oggi. Insomma Philippe Garrel continua a commuovere filmando solo le (sue) ombre e le (sue) donne, filmando solo l’imperfezione del cinema e delle persone, strappando così al tempo fugaci e preziose schegge di vita.

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