#Cannes68 – Yakuza Apocalypse, di Miike Takashi

Alla Quinzaine des Réalisateurs il maestro nipponico continua l’opera di scardinamento dei codici e messa in vista delle strutture di genere. L’apocalisse e’ accertata, e si ripete in loop micidiali

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L’esperienza-Miike non si ferma ovviamente alla singola opera, al film da affrontare come corpo chiuso, ma coinvolge un reticolo di biforcazioni infinito e in crescita costante e esponenziale anche al di la’ e al di fuori dello schermo (chi era in sala per la proiezione cannense alla Quinzaine ricordera’ le apparizioni folli di pupazzi, attori invasati e Miike in videosaluto vestito da donna – “non posso essere li con voi stasera perche’ ho iniziato a lavorare come geisha”, che hanno fatto da contorno alla visione).
La religione dei fan del cineasta nipponico accoglie deviazioni, false piste, visitazioni e carte sparpagliate con la devozione di chi si diverte ad aumentare la propria fruizione spettatoriale con la caccia al tesoro dei tasselli disordinati da inseguire: la sfida e’ ugualmente da parte dei voraci consumatori dell’esperienza-Miike, e da quella dell’autore che non sembra voler conoscere limite alcuno all’espansione (chi e’ dunque il vero vampiro, banalmente il regista nei confronti del cinema, o piuttosto suoi adepti che vogliono berne ancora e ancora il sangue?)

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Difficile quanto insensato allora, lo ripetiamo sempre, affrontare il tentativo di raccontare oramai questo o quel film di Miike Takashi: la sua poetica vive di una stimolazione continua per accumulo e frammentazione costante, e in questo si conferma puntualmente una delle testimonianze fondamentali dell’autorialita’ deviata del contemporaneo.
Quest’ultimo (?) Yakuza Apocalypse rinuncia coerentemente allora del tutto a porsi in qualunque modo come testo dai confini delineati ma partecipa all’universo esploso delle produzioni del cineasta aggiungendo nuovi personaggi cult, nuove sequenze memorabili, nuove traiettorie colte per un barlume lungo giusto due ore all’interno di una corsa a velocita’ forsennata che chissa’ da dove viene e chissa’ se proseguira’ mai per davvero (quanti finali aperti col sapore della beffa in questi film del regista?).
Tra le regie recenti del prolifico maestro, e’ una di quelle che viaggia maggiormente a rotta di collo, recuperando la violenza estrema di alcuni titoli di culto in area yakuza e proseguendo con l’opera di incasinamento assoluto della leggibilita’ dell’immagine stessa, che qui contiene cowboys con bara al seguito in stile Django insieme a vampiri, killer ineffabili vestiti da studente-modello (Yayan Ruhian dei due Raid con camicia a quadretti, pantaloni corti e cartella sulle spalle…), varie altre creature, e un mostro infallibile in megacostume da rana di peluche – quest’ultimo destinato poi a risorgere come gigantesca creatura sputafuoco che rade al suolo scoperti modellini di citta’ in puro stile kaiju eiga.

Ecco, a voler salire sulla giostra, dopo l’usuale assalto del prologo bagnato nel sangue di teste rotanti e mozzate, ci si accorge come con questa storia del contagio vampiresco che trasforma in yakuza Miike Takashi stia in qualche modo esplicitando il suo abituale lavoro sullo scardinamento e la messa a nudo dei codici: il versante grottesco dell’opera e’ infatti affidato alla trasformazione in “comportamento da yakuza” che subiscono persone per bene come i bambini o i maestri di scuola, che improvvisamente assumono camminate spavalde, modi di fare sprezzanti, eloquio volgare (come se in qualche modo il cineasta volesse regolare sottotraccia anche i conti con i troppi che si sono appropriati di questo stile, simulandolo o clonandolo direttamente…).
Quando funziona, il film e’ pieno di trovate micidiali (su tutte il liquido nella testa della donna-capitano yakuza, che i personaggi sentono gocciolare avvicinandosi alle orecchie di lei), e assume chissa’ quanto consapevolmente lo statuto di riflessione teorica sui meccanismi del genere (qualunque esso sia a questo punto…), come lo strepitoso duello di arti marziali incastrato tra Hayato Ichihara e Yayan Ruhian del finale, tutto giocato su immobilita’ e ripetizione ostinata, che in qualche modo svela il loop dietro alle sequenze di corpo a corpo che vediamo al cinema, puntando provocatoriamente alla frustrazione dello sguardo e dell’aspettativa.
L’apocalisse e’ accertata, e si ripete ogni volta, buffonescamente, sempre micidiale.
Cosa succedera’ dopo, cioe’ adesso?

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