CARTOLINE ELETTORALI DAGLI USA / 4. NEW YORK – You can’t repeat the past!

New York è la casa di Donald Trump e la sua torre è un landmark della Fifth Avenue. Ma la città lo ama nello stesso modo? L’alta società di Manhattan fa già finta di non averlo mai conosciuto

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Passammo sul grande ponte, col sole che attaverso i tralicci creava un luccichio continuo sopra le macchine che passavano, con la città che si ergeva sopra il fiume in cumuli bianchi e zollette di zucchero tutto costruito con la bacchetta magica del denaro che non ha odore.

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(Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby)

Donald Trump ha avuto uno dei momenti migliori della sua campagna durante uno dei dibattiti per le primarie repubblicane. All’epoca, Ted Cruz era il suo avversario più quotato e da senatore del Texas lo aveva accusato di essere il portabandiera dei valori di New York. Il magnate aveva risposto senza nascondere la sua appartenenza alla città che ospita il suo quartier generale sulla Fifth Avenue e rivendicando con enfasi la sua presenza in loco durante l’attacco dell’11 settembre del 2001. In più, uno dei suoi surrogates più fedeli e attivi tra le fila degli ammutinati del GOP è Rudolph Giuliani. Il sindaco che ha ripulito le strade della grande mela gli ha anche suggerito di estendere la pratica illegale dello stop and frisk su scala nazionale. La percezione sudista di New York come il centro della corruzione dei principi conservatori americani è un concetto radicato ed è singolare che proprio un candidato così legato a Manhattan abbia quasi distrutto il partito. Il simbolo del potere di Donald Trump si manifesta con un edificio in vetro nero di cinquantotto piani con una scritta di ottone/oro all’ingresso che porta il suo nome. I portieri in livrea escono spesso dalle porte girevoli non per rimproverare i turisti che si fanno una foto davanti ad una nuova attrattiva turistica ma per fargli da sfondo con la loro divisa sfarzosa. Il magnate lo pubblicizza come con uno skycraper che ha dieci piani in più e gli ultimi tre sono occupati dal suo attico che domina Central Park. Per permetterne la costruzione, aveva giurato che avrebbe regalato al Metropolitan Museum of Art le statue art deco che stavano murate nell’atrio dell’edificio precedente. Ovviamente le ha distrutte per non perdere tempo: il denaro non ha odore solo nelle apparenze e nella fantasia degli scrittori…

I politici! Mi hanno invitato nelle loro case, mi hanno presentato ai loro figli, e in molti casi sono diventato il loro migliore amico. Hanno chiesto il mio endorsement e hanno sempre voluto i miei soldi. E mi chiamavano il loro caro, caro amico. E poi improvvisamente quando ho deciso di correre per la presidenza come repubblicano sono sempre stato un inadeguato, marcio, disgustoso furfante. E si sono completamente dimenticati di me.

(Donald Trump, discorso all’Alfred Smith Charity Dinner)

La relazione di Donald Trump con la sua città è sempre stata condizionata da un rapporto di amore/odio. Le sue avventure immobiliari e la sua ricchezza lo hanno fatto diventare un protagonista dei suoi salotti ma il suo modo di ostentare il lusso lo hanno spesso confinato al ruolo del cafone presso l’aristocrazia locale. In una riuscita autoparodia in Celebrity di Woody Allen era lo stesso Donald Trump a comparire in un’occasione mondana e a scherzare sul fatto di volere comprare una chiesa e di trasformarla in un grattacielo… L’ipocrisia dell’altà società di New York era stata raccontata con dovizia di particolari in The Bonfire of Vanities di Tom Wolfe ma non era mai stata esplicitata nei tempi e nei modi usati da Donald Trump nel suo intervento alla charity diner di Alfred Smith. La cena di beneficenza ospita ritualmente i due candidati da decenni ed è un’occasione per stemperare i toni della campagna a poche settimane dall’Election Day. I dibattiti sono terminati e la vittoria dipende più dalle operazioni sul campo dei volontari che dalle ultime promesse degli aspiranti inquilini della Casa Bianca. I media americani si sono concentrati sul modo in cui il tycoon abbia attaccato frontalmente Hillary Clinton in un contesto in cui avrebbe dovuto blandirla. Donald Trump avrebbe violato la tradizione per l’ennesima volta sfruttando la visibilità di una ricorrenza molto popolare per fare un comizio pro domo sua. Il candidato repubblicano ha fatto molto di più perché ha continuamente accusato di ingratitudine tutto l’apparato di New York che era presente al completo. Le sue parole non hanno risparmiato nemmeno il cardinale Timothy Dolan che abita a pochi blocks da lui nella cattedrale di St. Patrick’s.

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Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.

(Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby)

La corsa presidenziale di Donald Trump è stato uno dei fenomeni più studiati e analizzati della politica americana. Il paragone con The Great Gatsby di Francis Scott Fitzgerald non è mai stato sfruttato a dovere forse perché le motivazioni di Donald Trump e di Jay Gatsby sono completamente diverse. I controversi rapporti dell’immobiliarista con le donne non hanno niente della devozione con cui il protagonista del romanzo idealizza la sua Daisy. Il suo desiderio di entrare nello Studio Ovale assomiglia ad un capriccio personale senza nessun pathos tragico. Eppure, entrambi sono ossessionati dall’idea di modificare il loro passato e di essere accettati in un mondo che ha sempre sfruttato il loro denaro ma li ha anche esclusi con freddezza. Il momento in cui Tom Buchanan inchioda Jay Gatsby davanti alla donna che ama e le dimostra la vera natura della sua indole assomiglia molto a quello in cui Hillary Clinton ha indelebilmente distrutto la maschera vincente di Donald Trump davanti a cento milioni di telespettatori durante il primo dibattito. I due avversari hanno dimostrato per l’ennesima volta che nessuno può sfuggire al proprio passato e costruirsi il proprio futuro senza un imbroglio di fondo. Jay Gatsby era un contrabbandiere di alcolici e Donald Trump ha costruito il suo impero non pagando le tasse federali per decenni e sfruttando i suoi lavoratori. I due hanno avuto la stessa reazione scomposta e rivelatoria del loro carattere e della loro inadeguatezza al ruolo. Jay Gatsby spaccava i mobili della stanza d’albergo in cui si svolgeva sua resa dei conti e Donald Trump ripeteva wrong! davanti alla telecamera in un tentativo di negare la realtà che è diventato a sua volta un marchio della sua pietosa prestazione. Entrambi sono stati sconfessati davanti a tutti e dichiarati unfit per la visione platonica di loro stessi. Nel loro casoTom Buchanan e Hillary Clinton sono la prova che non c’è niente che si possa fare per cambiare lo status quo. Jay Gatsby cambia il suo nome e costruisce una dimora meravigliosa a West Egg per soddisfare il suo smisurato sogno di grandezza. Donald Trump costruisce torri in ogni angolo del mondo ed è pronto a cavalcare qualsiasi provocazione pur di restare nel ciclo delle notizie. Per entrambi c’è una luce verde dall’altra parte dell’isola e l’Election Day dell’8 novembre dirà se Donald Trump è riuscito a raggiungerla. Jay Gatsby veniva ucciso per errore e al suo funerale non si presentava praticamente nessuno di tutti quelli che frequentavano le sue memorabili feste. Il discorso di Donald Trump davanti ai notabili della sua città che già fanno finta di non conoscerlo suona ugualmente profetico. Eppure, chiunque abbia visto spuntare lo skyline di Manhattan all’orizzonte e abbia sentito quel brivido di maestosa possibilità che accompagna quella visione sa che una storia del genere è credibile soltanto a New York.

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