Cavallo Denaro, di Pedro Costa

È un dialogo incessante e “polemico”, quello tra la luce e l’ombra. E qui l’immagine assume una valenza pittorica caravaggesca, che segna la dimensione politica e morale. Miglior regia a Locarno 2014

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Il buio sembra sempre più buio. Ha una densità inquieta, assorbente, un peso specifico concreto, che viene fuori in rapporto a quei tagli di luce che provengono da fonti angolate, nascoste per lo più nel fuoricampo, e quindi del tutto innaturali, appartenenti a una dimensione dell’altrove, che scompagina definitivamente le leggi della fisica e della Storia.

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È un rapporto di amore e odio, un dialogo incessante e “polemico”, quello tra la luce e l’ombra, nei film di Pedro Costa. Un confronto che facilmente slitta dal tessuto visivo dell’immagine a tutte le implicazioni teoriche e metaforiche possibili. E che già si era fatto serrato negli splendidi chiaroscuri di Ne change rien, in cui – giustamente – Costa guardava “emergere dal nero sparute tracce di luce, porzioni lacerate e monumentali di spazio, accensioni sullo splendido volto della Balibar”.  Il mondo, la persona e la sua opera: è tutto un affacciarsi dall’indistinto. Ma lì ci si muoveva in un universo in bianco e nero. Una volta riguadagnato il colore, per di più nel nitore elettrico del digitale, la luce acquisisce nuove valenze e il contrasto con il buio si approfondisce. La lotta sembra farsi più aspra. L’immagine assume una potenza pittorica caravaggesca, in cui i corpi emergono dall’oscurità quasi a pezzi, un volto, un braccio, una mano che trema, il biancore degli occhi e dei denti. E sono corpi pieni, a dimensione tonda, solidi nonostante gli anni, i dolori, le malattie, l’inevitabile corruzione della Storia e della miseria. Ventura, Vitalina, gli altri reduci capoverdiani che li circondano, sembrano quasi delle statue, che si stagliano dallo sfondo. Sono persone vive? Forse sì. O forse no. Perché il punto è che proprio come le statue, proprio come i personaggi di un dipinto, sembrano non aver movimento. O meglio sono bloccati in un movimento. Come se fossero ancora invischiati in quel nero che li circonda e che pare fatto di materia densa, viscosa (forse solo in James Gray l’oscurità, oggi, ha questa potenza). Del resto neanche la camera si muove mai. Ed ecco allora il cortocircuito di questo conflitto compositivo: i corpi, gli oggetti, lo spazio stesso… è tutto un venir alla luce. O almeno un tentativo, perché l’oscurità risucchia ogni cosa, esattamente come la morte, come il tempo che condanna alle tenebre e all’oblio.

 

cavallo denaro3È un gioco di emersione e immersione, di individuazione e annullamento. Ed è come se ogni singola esistenza, nell’attimo stesso in cui prova ad affacciarsi alla ribalta, non potesse far altro che ribadire la propria vanità, la propria sostanza polverosa. Cosa ha fatto Ventura? Cosa ha portato alla rivoluzione? E cosa resterà di lui? La voce di quel soldato, di quella statua vivente (non a caso), in quell’ascensore che viene dritto dritto dal frammento di Costa in Centro histórico (che si conferma sempre più una meteora fondamentale degli ultimi anni), ecco quella voce lo inchioda alla verità. Ventura ha costruito case, musei, scuole e ospedali. Ma per quanto ogni singolo mattone possa testimoniare del suo sangue e del suo sudore, la sua vita è una condanna all’anonimato, a non lasciar traccia di sé. È già un fantasma. Proprio come Joaquim de Brito Varela, morto/non ancora morto che si aggira ancora come uno spettro tra le macerie di Fontainhas. Proprio come tutta la comunità capoverdiana, scaraventata in una zombieland dopo lo smantellamento del quartiere. Perché in fondo è proprio lo spazio a mancare. C’è la parvenza di uno spazio istituzionale, l’ospedale, il museo, luoghi asettici in cui si certificano le cose e le persone, come ultimo tentativo disperato di conferir loro una realtà. Ma per il resto è solo tenebra. Il mondo dei morti, giustamente. E per quanto Costa si affanni ad approfondire il campo, a squarciare l’oscurità, non è possibile riconoscere più nessun quartiere, nessuna città che funzioni come tessuto connettivo delle esistenze e, quindi, di una società. Il Portogallo non esiste, è perso come tutte le promesse intraviste e non trattenute. Così come il tempo non ha più senso certo, nell’accavallarsi degli anni e delle età. Ma allora cosa rimane? Quei corpi scolpiti dalla luce. E torniamo daccapo, intravedendo il senso politico di una persistenza… Ventura appare e scompare. Rivive a ogni film, a ogni proiezione, ritrova nel cinema, nell’immagine la dimensione “reale” della sua esistenza e delle sue storie. È reale proprio in quanto fantasma, in quanto appartenente all’ordine delle tenebre. Ed è nelle tenebre, ovviamente, che può trovare la via di accesso e di fuga da un mondo senza contorni e senza direzioni. Sì, esce dall’ospedale, torna alla luce, per strada, ritrova il coltello… Ma, alla fine, con la fine, al buio ritorna. A quel buio che contiene tutte le altre realtà possibili, non ancora inquadrate.

 

Titolo originale: Cavalo Dinheiro

Regia: Pedro Costa

Interpreti: Ventura, Vitalina Varela, Antonio Santos, Tito Furtado

Distribuzione: Zomia

Durata: 104’

Origine: Portogallo, 2014

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