C’è tempo, di Walter Veltroni

C’è tempo sembra nato per trasmettere messaggi con un’evidenza scostumata, al punto che dire diventa più importante di tutto il resto, tanto da trascurare le immagini, fino a risultarci insalubre

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Quando Stefano (Stefano Fresi), osservatore di arcobaleni e bambinone mai cresciuto, viene informato dell’esistenza di Giovanni (Giovanni Fuoco), fratellastro tredicenne rimasto orfano, decide, allettato da una cospicua somma in denaro, di partire da Viganella per andare a Roma a prenderlo. Inizia così un viaggio che cambierà la vita di entrambi. Una delle caratteristiche principali di C’è tempo, primo film di fiction di Walter Veltroni, sono i riferimenti con cui il regista, sceneggiatore insieme a Doriana Leondeff, costella le sue immagini, attraverso schermi che irrompono prepotentemente nella scena. Si comincia con I 400 colpi, film preferito dal piccolo Giovanni associato a Jean-Pierre Léaud, presente nel film con un piccolo cameo. C’è poi il giovane Olmo di Bertolucci, che cammina spavaldo sul tavolo guardando Sterling Hayden. Ci sono anche citazioni meno lampanti,  impossibili da cogliere, come un pezzo dell’armatura de L’armata Brancaleone, su cui Stefano Fresi posa goffamente il braccio alla reception di un albergo, tappa fra tante di questo on the road.

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Compare in uno schermo anche Ettore Scola: ci parla della commedia all’italiana, celebra la forza di questo genere di far emergere una certa luce sottostante alla realtà, così restia alla dicotomia dramma/commedia, gioia/dolore, buio/luce. Il messaggio è fin troppo chiaro ed è subito ovvio che Veltroni non vuole limitarsi alla storia che sta raccontando, così affida brutalmente alla sua “commedia italiana” promemoria sparsi da appuntare e lezioni importanti da non dimenticare. I tempi della bella commedia son passati e le sale chiudono,  ci ricorda. In una delle tante soste, Stefano e Giovanni si fermano al Cinema Fulgor di Rimini, dove si tiene una rassegna di vecchi film italiani. La sala è vuota, alle battute di Fresi è affidato il compito di farcelo notare. D’altronde anche Francesca, figlia di Simona, cantante che i due protagonisti conoscono in viaggio, ride quando Giovanni le parla dei suoi amati film, perché lei, giovane d’oggi, guarda solo serie tv. La questione è così cara al regista che anche i titoli di coda non sono esenti dall’intento divulgativo e ci mostrano una “carrellata” nostalgica di illustrazioni di sale cinematografiche. Sottostante e meno chiaro, il macro messaggio della storia: imparare a includere l’altro da sé, partendo da Stefano e Giovanni che devono accettarsi nelle loro diversità, ricordando che l’arcobaleno include armonicamente colori differenti fra loro…

Guardando C’è tempo, non c’è un solo istante in cui pensiamo di abbandonarci alla celebrazione e ai ricordi, in questa retorica del passato ci manca l’aria, ci risulta insalubre fin dal primo momento. Quello che fu ci appare come qualcosa di immobile e stantio.
Un altro modo di raccontare al di là della commedia all’italiana è possibile, verrebbe da urlare, in un mondo ormai diversissimo da quello che era, pregno di narrazioni di ogni tipo, generate da ogni dove. Ma in fin dei conti il problema non è neanche questo, non è richiamare in gioco la commedia, non è neanche fare lampante citazionismo. Il vero problema è che C’è tempo sembra esser nato per trasmettere messaggi a tutti i costi e con un’evidenza scostumata, al punto che “dire” diventa più importante di tutto il resto, tanto da oscurare e trascurare le immagini, che sono davvero la cosa che ci sta a cuore. È un cinema usato come registro questo, in cui appuntare note e lezioni. Un cinema che ci interessa poco e che ci sembra molto distante da quello che Veltroni vuole tanto celebrare.

Regia: Walter Veltroni
Interpreti: Stefano Fresi, Simona Molinari, Giovanni Fuoco, Francesca Zezza, Sergio Pierattini, Laura Efrikian, Silvia Gallerano, Shi Yang Shi, Max Tortora, Anna Billò, Jean-Pierre Léaud, Giovanni Benincasa
Origine: Italia, 2019
Distribuzione: Vision Distribution
Durata: 107′

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