Charley Thompson, di Andrew Haigh

Andrew Haigh impasta sapientemente culture e tradizioni (dal western classico al cinema moderno europeo) in un notevole ibrido filmico che commuove e convince.

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Portland, Oregon, estremo west americano. Il sedicenne Charley si è da poco trasferito insieme al padre Ray (un eterno ragazzino) che sembra soddisfatto del nuovo lavoro. La madre non è con loro, li ha lasciati anni prima, scappata chissà dove, chissà con chi. Il ragazzo (sempre in silenzio) sperimenta luoghi e persone, sino a incontrare casualmente Del (Steve Buscemi) che gli offre un lavoro nel suo piccolo ippodromo. Charlye instaura così una tenera amicia con Lean on Pete (detto solo Pete), vecchio cavallo da corsa ormai in procinto di essere venduto o peggio ancora “spedito in Messico”. Quando la situazione precipita – il padre muore per i postumi di in uno scontro violento, nessuno riesce a rintracciare un’amata zia fuggita anch’essa chissà dove, chissà con chi – Charley e Pete si ritrovano entrambi senza casa, senza legami, senza futuro. Inizia il viaggio (proprio verso Laramie…).

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Andrew Haigh porta sullo schermo il romanzo La ballata di Charley Thompson di Willy Vlautin e impasta sapientemente culture e tradizioni, inquadrando gli smisurati spazi della frontiera americana e riportando in vita riti e miti dal western al road movie (il cavallo al tramonto, la polvere del deserto, le strade assolate, i diner di periferia….). Ma questa fortissima iconografia all american viene sempre mediata da una sensibilità cinematografica intimamente europea (profondità di capo e primi piani insistiti, piani sequenza e silenzi significanti, tutti indici stilistici già presenti in Weekend o 45 anni). E non a caso si avvertono nitidi anche gli umori del Wim Wenders americano (da Paris, Texas a Non bussare alla mia porta), soprattutto nella bellissima fotografia firmata da Magnus Nordenhof Jønck. Haigh, insomma, crea un notevole ibrido filmico concedendo il giusto tempo alle proprie immagini e rispettando i travagli interiori del suo protagonista, senza mai invadere il nostro spazio di spettatori con inutili sottolianture stilistiche. I personaggi incontrati da Charlye, ad esempio, sono tratteggiati in fugaci pennelate emotive che ce li fanno conoscere all’istante: dai comprensivi proprietari di una tavola calda a due ex soldati che sfogano sui videogiochi gli orrori della guerra; da un homeless solidale e pericoloso a una dolce ragazza sovrappeso che sorride a Charlye mentre lavano i piatti. Una scena toccante e bellissima, che riesce in un singolo e brevissimo dialogo a illuminare un difficile percorso di vita per poi confinarlo nel fuori campo…

Tanti “piccoli” personaggi, certo, ma è il rapporto con il cavallo a diventare pian piano struggente. Col passare dei minuti ci si rende conto che Pete è l’unico essere a cui Charley confida i ricordi più personali, i suoi timori presenti o le sue speranze future. Pete ascolta e restituisce affetto al giovane amico, mentre il cinema li accompagna con la giusta premura: i campi lunghissimi sfumano sempre in dissolvenza incrociata sul volto del ragazzo (e viceversa), quindi gli spazi dell’America più vasta e archetipica diventano paesaggio solo nello sguardo di questo figlio perduto. E sia chiaro: il film, alla lunga, ha anche qualche incertezza di troppo o qualche semplificazione evitabile, ma la bellezza di queste immagini pure supera di slancio ogni difetto. Lasciandoci infine con un finale truffauttiano e solo sussurrato… proprio come il cinema di Andrew Haigh, che continua ad essere sincero e profondamente umanista.

 

Titolo originale: Lean on Pete

Regia: Andrew Haigh

Interpreti: Charlie Plummer, Steve Buscemi, Chloë Sevigny, Travis Fimmel, Steve Zahn

Distribuzione: Teodora

Durata: 121′

Origine: Francia/Gran Bretagna 2017

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