Ciao amore, vado a combattere, di Simone Manetti

Sorta di sport movie destrutturato, le tappe irrinunciabili del canone vengono tutte rispettate quasi con devozione verso il genere ma ci vengono restituite in forma contratta, rabbia compressa

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L’aspetto più interessante di Goodbye darling è che Manetti con ostinazione fa in modo di porre il proprio sguardo di documentarista sempre nella posizione più difficile e scomoda, non intendo nel senso pratico di angolazione di ripresa (gran lavoro della fotografia stilizzata e spigolosa di Simone Moglie) quanto della continua ricerca di un equilibrio decisamente ostico quanto sfuggente, sottilissimo.
La sfida così non è soltanto quella della protagonista Chantal contro il proprio passato e il ring che la aspetta per un ritorno ai combattimenti, ma si raddoppia in una sorta di training del respiro dell’autore attraverso i potenti frammenti di repertorio, le ambiguità della figura di Chantal e delle sue confessioni davanti all’obiettivo. L’ambizione di tenere insieme il racconto dei tempi dell’allenamento della lottatrice che torna in Thailandia con un’indagine più ampia su di un personaggio parecchio abile a giocare con il confine affascinante tra figura pubblica e svelamento privato.

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Il risultato diventa così una sorta di sport movie destrutturato, in cui le tappe irrinunciabili del canone vengono tutte rispettate quasi con devozione verso il genere (il trauma da superare attraverso l’ascesi della lotta, l’allenatore carismatico e misticheggiante, il cameratismo da palestra, il faticoso percorso di purificazione contro gli ostacoli fino alla vittoria sul quadrato), ma ci vengono restituite in una forma assolutamente contratta.
Come una rabbia compressa che fa serpeggiare tra le immagini una tensione irrisolta e irrazionale, forse l’aspetto più spirituale e istintivo di un’opera che invece tradisce l’anima da “tecnico” di Manetti, che alla deriva astratta della filosofia muay thai preferisce il focalizzarsi sull’autocontrollo delle giunture e dello stile del film.
In questo modo il ritratto di questa donna dai mille volti e senza patria, attrice, modella, filmmaker, cantante e poi campionessa di boxe tailandese non sfiora neanche per un’inquadratura l’abisso della morbosità che invece sarebbe stato facilissimo imboccare, tanto che le fuoriuscite da questo rigore autoimposto da Manetti – ovvero il racconto del suicidio di un allievo del passato da parte del coach, e le interviste conclusive ai genitori di Chantal – finiscono per stridere un po’ con la densa struttura generale.

Un procedimento estremamente lucido e quantomai prezioso in questa epoca di documentarismo spesso improvvisato e grossolano, che permette a Manetti di portare a casa istanti pazzeschi in cui il reale sembra funzionare come una sceneggiatura hollywoodiana, su tutti il momento in cui a Chantal viene comunicato l’annullamento dell’incontro per il titolo che le era stato organizzato in occasione del compleanno della Regina tailandese, forse la vertigine assoluta dell’intera opera, in cui tutti i presenti in scena sembrano azzeccare i tempi, le entrate e le uscite come a svelare il cinema che ci ronza in testa, e un fulmineo sguardo in macchina di Chantal a lasciarti lì col dubbio.
Indispensabile allora lo sforzo al montaggio di Giuseppe Trepiccione e Alice Roffinengo, ma allo stesso tempo l’opera appartiene in egual modo al catalogo dei benedetti azzardi di un produttore/autore straordinariamente indefinibile del nostro cinema indipendente, Alfredo Covelli.

 

Regia: Simone Manetti
Origine: Italia, Thailandia, 2016
Distribuzione: I Wonder
Durata: 74′

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