CINEMAFRICA – "Vol spécial" di Fernand Melgar: Democrazia a rischio, democrazia in movimento


Uscito a fine settembre nelle sale elvetiche il documentario si sforza di raccontare storie di migranti, presentandoli semplicemente come uomini sulla terra, ciascuno con un vissuto diverso alle spalle ma un destino comune

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Negli ultimi mesi, in Italia come negli altri paesi europei, il dibattito pubblico è stato pressoché monopolizzato dall’attuale crisi economica, le cui gravose ricadute sulla vita di milioni di cittadini comunitari sono sotto gli occhi di tutti. In alcuni paesi, la recessione è stata usata come pretesto per lanciare vere e proprie campagne xenofobe, tese a comprimere ulteriormente i diritti dei lavoratori stranieri residenti e a criminalizzare irregolari e richiedenti asilo, assimilati a parassiti gravanti sul bilancio statale: è successo anche nella civile Svizzera, ad opera dell’UDC, che ha impostato tutta l’ultima campagna elettorale su un’iconografia teratomorfica a danno dei migranti, rappresentati sui manifesti come ratti, pecore nere, corvi. Un film uscito a fine settembre e tuttora in programmazione nelle sale elvetiche si sforza di raccontare storie di migranti, presentandoli semplicemente come uomini sulla terra, persone, individui, ciascuno con un vissuto diverso alle spalle ma un destino comune: pur senza avere, in molti casi, commesso alcun crimine, solo per il fatto di avere il permesso di soggiorno scaduto, queste persone sono stati rinchiuse in un centro di detenzione amministrativo a Frambois, distante solo pochi chilometri dall’aeroporto di Ginevra, per essere rimpatriate nel paese di provenienza dopo un massimo di ventiquattro mesi di custodia coattiva (ridotti a diciotto dal 1° gennaio 2011, in ottemperanza a una direttiva europea), anche se magari hanno vissuto e lavorato dieci, quindici, vent’anni in Svizzera, pagando regolarmente le tasse, versando contributi, mettendo su una famiglia che verrà così disgregata irreparabilmente.

Il film si chiama Vol spécial e a firmarlo è un filmmaker svizzero, Fernand Melgar, con una storia familiare che ricorda molto quelle dei pensionanti di Frambois, come li vuole chiamare il solerte e umano direttore: sindacalisti spagnoli in fuga dalla dittatura franchista, i genitori si sono rifugiati prima in Marocco (Fernand è nato a Tangeri nel 1961) e poi, da lavoratori stagionali, in Svizzera, dove hanno tenuta nascosta a lungo la presenza di Fernand e della sorellina, visto che la legge vigente impediva il ricongiungimento familiare ai detentori del permesso di soggiorno stagionale, obbligando migliaia di bambini, molti anche italiani, a vivere reclusi in appartamenti angusti: li chiamavano i bambini dell’armadio. Melgar ha dedicato alla causa degli irregolari La Forteresse (premiato col Pardo d’Oro a Locarno, ma anche al Festival dei Popoli e in molti altri), nel quale raccontava le storie di alcuni richiedenti asilo in attesa di pronunciamento da parte della commissione, reclusi nel centro di Vallorbe. Da Vallorbe, diversi possono essere stati trasferiti a Frambois, se ritenuti non idonei allo status di rifugiato: tutti i detenuti del centro qui evocato, non avendo i documenti in regola, sono destinati al rimpatrio, volontario o coatto, nei paesi d’origine.

Va precisato subito che, così come era stato autorizzato, nel caso de La Forteresse, dall’autorità nazionale preposta (l’Ufficio Federale della Migrazione), anche per Vol spécial Melgar ha avuto via libera da parte delle autorità cantonali responsabili e piena collaborazione da parte della direzione del centro, a girare nella struttura intercantonale di Frambois, considerata una sorta di fiore all’occhiello del sistema di detenzione amministrativa per irregolari, che consta di ventidue centri, in quanto regolato da un regime singolarmente liberale, dal momento che consente libera circolazione dalle 8 alle 21 nell’interno del recinto ai residenti, poco più di venti, ospitati in stanze singole, equipaggiate con televisione e frigorifero: in altri centri, come quello di Zurigo, i detenuti sono reclusi ventitré ore al giorno. Al loro arrivo, i detenuti vengono accolti dal direttore in persona, che li informa di quanto li aspetta: dal momento che un giudice si è già pronunciato per il loro rimpatrio, il loro soggiorno si prolungherà per il tempo necessario all’organizzazione del volo di ritorno. In conformità con quanto previsto dalla normativa dell’Unione Europea, i detenuti vengono incoraggiati a partire volontariamente, in voli ordinari di linea: se accettano di collaborare, viene data loro anche una piccola somma, per facilitare il reinserimento nei paesi di provenienza. In ogni caso, fossero anche contrari a partire, dovranno sottoporsi al rito, umiliante, di preparare i bagagli e portarli con sé all’aeroporto, come se dovessero partire veramente. È quello che succede, nel film, al kosovaro Ragip, che oppone tutta la resistenza che è in suo potere per non lasciare un paese dove vive da vent’anni e nel quale ha costruito una famiglia, con tre figli. Il congolese Serge, invece, sembra accettare volontariamente il proprio destino ma, una volta sbarcato a Kinshasa, chiede e ottiene di poter rientrare nel centro. Quelli che, come lui, rifiutano di rimpatriare, vengono messi in una lista d’attesa per il volo speciale: in qualsiasi momento, possono essere presi, informati pochi minuti prima della partenza e caricati su un pulmino per l’aeroporto. Una volta giunti a destinazione, li aspettano un sedile e un’imbracatura speciale che immobilizzerà loro la testa e gli arti: legati al sedile, verranno portati nell’aeromobile e costretti talvolta a voli di oltre dieci ore, in queste condizioni disumane che ne mettono a repentaglio la vita. 

Ma questi dettagli i pensionanti di Frambois li scoprono tardi, troppo tardi. Il direttore e il personale – che comprende anche un addetto afrosvizzero – ostentano umanità, premura, cortesia. La cucina è sempre aperta e offre una mensa di lusso. Il centro ha una palestra e diverse strutture sportive. Gli ospiti possono ricevere le visite dei legali e dei familiari. Come del resto accadeva anche nella struttura di Vallorbe, davanti alle videocamere di Melgar, i detenuti sono trattati con la massima attenzione né nessuno si lamenta di maltrattamenti subiti. Il regista si muove negli spazi dei detenuti, in quelli dei custodi e persino nell’ufficio del direttore con un’apparente, incontrastata, libertà. L’umanità esibita dal personale e dalla direzione hanno tratto in inganno il presidente della giuria di Locarno, il produttore portoghese Paulo Branco, che ha accusato Melgar nientemeno di fascismo, nel non voler stigmatizzare esplicitamente il comportamento di quelli che considera come collaborazionisti, soggetti attivi nell’applicazione di una legge disumana. Eduard Waintrop, delegato generale della Quinzaine des Réalisateurs e Philippe Azoury di Libération hanno difeso il regista, che a sua volta ha rivendicato il proprio metodo, lucido e non militante, attento a non consegnare una verità precotta allo spettatore. 

Come ha sottolineato Waintrop, Melgar, che non utilizza mai la voce fuoricampo né musica extradiegetica e limita al minimo l’uso di cartelli, entra nel centro usando gli stessi percorsi delle guardie o del direttore ma nel prosieguo del film se ne smarca sempre di più, con quella che, è il caso di aggiungere, si configura come una doppia operazione di riposizionamento. Per un verso, il regista si trova sempre più spesso a condividere uno spazio di comunicazione diretta con gli ospiti, in assenza di personale; per l’altro, usa la possibilità di documentare le riunioni dello staff per registrare non solo l’attività corrente di gestione e commento sulle attività svolte ma anche i consigli di “messa in scena” che il direttore dispensa ai propri dipendenti, soprattutto quando si tratta di allestire il terribile rito preparatorio del volo speciale. È in momenti come questi che la qualità etica e la sottigliezza politica dello sguardo di Melgar emergono in tutta la loro evidenza: davanti alla lente apparentemente neutra della sua cinepresa, il direttore e il suo staff performano, dopo alcune istruzioni sommarie, una drammaturgia precisa, che passa per l’informazione all’ospite della sua imminente partenza per un volo speciale e un rassicurante saluto, mentre in parallelo qualcun altro prepara i bagagli del predestinato. 

La curva del racconto segue le singole storie, soffermandosi su sei casi particolari, quattro dei quali riguardano cittadini di paesi africani. Geordry, Ragip, Jeton, George, Julius, Alain. Lo spettatore impara presto a riconoscerli, a condividerne la sorte, a immaginarsi per loro un futuro incerto, foriero di pericoli per la propria incolumità e un presente difficile da reinventare a distanza di migliaia di chilometri, con mogli, figli da dover crescere, fidanzate che si sarebbero volute sposare. Alcuni sprofondano nella depressione, diventano soggetti a rischio di suicidio per le stesse guardie. Altri si affidano alla religione. Altri ancora alla musica, come fa Wandifa, che scrive struggenti poesie dalle cadenze reggae, gridando l’ingiustizia della propria condizione. Siamo nel tempo dell’attesa, che sembra durare indefinitamente. Un giorno arriva, miracolo inatteso, perfino la liberazione per un detenuto, che viene restituito alla propria famiglia, sapendo di poter tuttavia in qualsiasi momento essere catturato e riportato in un centro come Frambois. Ma questa liberazione di uno viene vissuta come un momento di speranza, travolgente, per tutti. E poi, invece atteso, anche se volutamente esorcizzato e rimosso, arriva improvviso il giorno della partenza, si approntano i preparativi sotto la regia attenta del direttore e tutto sembra andare alla perfezione, con tre ospiti che comunque accettano di buon grado la partenza. Ci penseranno le immagini di un notiziario ad avvisare lo spettatore che uno dei tre, un ragazzo nigeriano dall’aria gentile, è morto forse di crisi cardiaca all’aeroporto di Kloten, prima ancora che il volo speciale avesse inizio. E allora la curva drammaturgica prevede una nuova catarsi, catastrofica, per i detenuti e per il personale e un nuovo momento di distensione, in concomitanza con la decisione federale di sospendere i voli speciali. Ma è solo un’illusione. La macchina, implacabile, dei rimpatri, ripartirà presto. 

Polemiche festivaliere a parte, il film di Melgar ha suscitato un’ondata di reazioni prevedibile, in considerazione anche dell’eco suscitata da La Forteresse. Prendendo a pretesto il fatto che nel film compare un cittadino camerunese dalla fedina penale assai lunga, a sua volta presente in sala in un’anteprima pubblica, un consigliere di Stato elvetico ha attizzato una campagna di stampa contro Vol spécial, cavalcata ad arte dall’UDC che ha invocato il boicottaggio del film da parte delle scuole svizzere. Addirittura l’Ufficio Federale della Migrazione ha pubblicato sul suo sito ufficiale un elenco di FAQ indirettamente poste dal film e alle quali viene, puntigliosamente quanto parzialmente, data risposta. Su altro versante, il film ha suscitato una petizione popolare per l’abolizione dei voli speciali che tuttavia ha raccolto solo poche migliaia di firme, lasciando tiepida la stessa (ex)sinistra, attestata su posizioni di retroguardia, non dissimilmente da quella italiana. Anche in occasione della presentazione al Festival dei Popoli (vai al podcast), Melgar ha dichiarato di non farsi illusione sull’impatto che può avere il cinema sul governo della cosa pubblica, e anzi di aver fatto Vol spécial perché girando nelle scuole con LaForteresse si era reso conto di quanta ignoranza e prevenzione ci fossero nei ragazzi, intossicati da un circo mediatico e da una classe politica che lucrano audience e consenso sulla pelle di migranti, stagionali, richiedenti asilo, irregolari.

Sempre a Firenze, Melgar ha evocato il problema più generale delle politiche europee in tema di immigrazione, che puntano sempre più sull’estensione di centri di detenzione (in UE ve ne sono 300, che trattengono, per semplici ragioni di irregolarità di permesso di soggiorno, oltre 40.000 persone) e sull’esternalizzazione del contrasto all’immigrazione, perseguita ormai in numerosi paesi del Nord Africa, con la conseguenza che migliaia di persone vengono recluse, in campi finanziati da stati europei come l’Italia, senza aver commesso nessun tipo di crimine e senza neanche aver varcato un confine europeo.

Nella stessa occasione, il regista non ha mancato di evocare la grande tradizione del cinema diretto alla quale si richiama come autore di documentari, quella di Pennebaker, Peacock, Wiseman e dei fratelli Mayles, per i quali il cinema era democrazia in movimento. Difficile trovare una definizione più appropriata per film come Vol spécial e La Forteresse. Per i modi di produzione: realizzati con la cooperativa Climage, in collaborazione con ARTE, entrambi i film sono stati distribuiti nelle sale ma accompagnati in parallelo da un’ampia circuitazione culturale e associativa. Per l’idea di cinema e il metodo che esprimono: una volta ottenuti tutti i permessi per le riprese, Melgar ha trascorso sei mesi col suo operatore nel centro prima di cominciare a riprendere, per conquistare la fiducia di detenuti e personale. Gli ospiti della struttura hanno compreso fin dall’inizio che la partecipazione al film aveva un valore di testimonianza civile, che non avrebbe cambiato in nulla la propria condizione amministrativa, e che avrebbero potuto tirarsi indietro in qualsiasi momento dal film. (Secondo Melgar, tuttavia, è probabile che la liberazione mostrata nel film di un ospite, avvenuta ad appena un giorno dal volo speciale programmato, sia stata deliberata dalle autorità a causa delle riprese.) Inoltre, consapevole dei gravi rischi cui andavano incontro i rimpatriati (puntualmente trasformatisi in vessazioni ricevute: alcuni hanno riportato menomazioni permanenti a seguito del volo coatto, altri sono stati derubati o arrestati all’arrivo, scoprendo che la documentazione prodotta per l’istanza di asilo era stata girata alla polizia dei paesi d’origine), Melgar non perde occasione per denunciare questi fatti, informando sulla sorte dei tragici protagonisti del suo film.

Insomma, quello che scrivemmo quattro anni fa a proposito di Come un uomo sulla terra vale come e ancor più per La Forteresse e Vol spécial, visto che nessun distributore ha avuto il coraggio politico ed economico di acquisirli per il pubblico italiano. Finora. La necessità di titoli come questi va ben aldilà del tema, pure di capitale importanza, che affrontano. Quando l’urgenza etica si sposa con il controllo rigoroso del dispositivo cinematografico, si apre una partita pericolosa per questo sistema-Europa che, nell’intera Schengenland, a Framboise come a Lampedusa, mostra reifica alterizza l’altro e lo condanna a un destino di permanente precarietà, in assenza di ogni forma di tutela, formattandolo in modo da poter essere assorbito agevolmente da un mercato del lavoro con sempre meno regole. Una partita pericolosa perché quando i sudditi scoprono di essere cittadini tutto diventa possibile. Questo spiega perché, nella patria di Rousseau, tanti hanno paura di Melgar.

 [articolo a cura di www.cinemafrica.org]

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