CinemAsia – La natura sovrana: the Tale of Iya

Il secondo film di Tsuta Tetsuichiro si addentra tra i monti del Giappone per orchestrare un film granulare e quasi mistico sulla forza della natura che predomina sull'uomo. La ricerca delle inquadrature, dei cromatismi, le ellissi, i dialoghi rarefatti portano alla mente il cinema giapponese classico ad esempio di Shindo Kaneto, rianimato attraverso lo sguardo spietato di un Imamura Shohei. La rubrica è a cura di www.asiaexpress.it

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Una ricostruzione rigogliosa e maestosa della vita di montagna, ripresa con sguardo impassibile e poetico. Tsuta Tetsuichiro, al suo secondo lungometraggio dopo Island of Dreams (2009), evita scivoloni nel manierismo naturalista: nonostante il tema fosse a rischio di esotismo stereotipato (le vicissitudini di una piccola comunità isolata del Giappone, con i suoi ritmi, i suoi colori, i suoi gesti ieratici) e l'intreccio potesse facilmente abbandonarsi al dualismo manicheo (la frizione tra i lavoratori di una nuova strada in costruzione che taglia la valle e alcuni agricoltori, la dicotomia città/campagna), The Tale of Iya sfugge alle soluzioni scontate e riesce a raccontare uno spaccato universale di stordente, spietata bellezza. Il film si apre su una nevicata nei boschi, con una figura in abiti da contadino che scende una vallata fino a incontrare una macchina uscita fuori strada e schiantatasi contro a un albero. L'uomo osserva i resti della donna al volante, poi si allontana per un sentiero tracciato nella neve fresca. L'inquadratura si allarga, fino a rivelare la presenza di una bambina piccola abbandonata nella neve. Un'apertura che rimane sospesa tra realismo e surreale, capace di imprimere il proprio sguardo senza bisogno di parole. The Tale of Iya è parco di dialoghi, preferisce lo scorrere inesausto delle azioni, eppure nelle sue quasi tre ore di durata avvolge in una spira atemporale che si fa sempre più opprimente.

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I protagonisti sono sostanzialmente tre: un transfugo della megalopoli Tokyo, giunto per cercare di trovare una nuova strada nella sua vita, una liceale che vive insieme al nonno, e l'anziano contadino – lo stesso visto nell'incipit. Eppure le loro storie sono solo uno sfondo per l'unica vera protagonista, la natura, nei suoi aspetti meno edificanti e immediati. Tsuta ha l'ambizione di lavorare sulla calma, sulla ripetizione, sprofondando la macchina da presa nel territorio, restituendo immagini vivide non connotate da giudizi o sensazionalismi. Nelle contrapposizioni che pure sono mostrate, tra abitanti della zona e forestieri, tra ecologisti e fautori del progresso, non c'è volontà di stabilire una gerarchia di giustizia o ingiustizia, solo la scelta lungimirante di soverchiare il tutto con l'asprezza selvaggia del territorio.

In questo studio naturalistico (significativo in questo senso anche la presenza in un cameo della regista Kawase Naomi), fotografato in un 35mm sorprendente, ha comunque importanza fondante il fattore umano, e gli attori, con scelte insolite che si rivelano vincenti. La giovane Tekeda Rina ha iniziato la sua carriera nel cinema grazie all'abilità nel karate, in film rattoppati come High Kick Girl (2009) e Karate Girl (2011), o apertamente squinternati come Dead Sushi (2012): qui ha la possibilità di confrontarsi con un ruolo più maturo, che fa della sua fisicità il centro del ruolo innocente. Onishi Shima, l'uomo di mezza età in fuga dalla città, ha lavorato negli ultimi film del compianto Wakamatsu Koji, da United Red Army (2008) a The Millennial Rapture (2012), e qui mantiene un atteggiamento ambiguo, dai toni crucciati, che oltrepassano il rischio di rendere il personaggio macchiettistico. Infine lo smagliante Tanaka Min, conosciuto principalmente come ballerino, sulle scene fin dal 1966, ed entrato nel mondo del cinema solo a età avanzata, con ruoli da spalla a partire da Twilight Samurai (2002) per arrivare a 47 Ronin (2013): il suo volto scavato, il suo mutismo apparente, contribuiscono a generare un cortocircuito di senso, come se il film si svolgesse su piani temporali e spaziali diversi.

The Tale of Iya dimostra una forza quieta a ogni inquadratura, con una struttura narrativa avvolgente capace di riportare alla mente il cinema giapponese classico degli anni '50 e '60, in particolare il capolavoro L'isola nuda di Shindo Kaneto (1960), e non è un caso il lavoro anche iconografico che lega a quella tradizione persino i titoli di testa. Non si tratta però di una ripetizione sterile, Tsuta non si perde in un esercizio di stile, ma sfrutta quell'immaginario per imprimere sferzate elettrificate, verso un finale onirico impietoso, che parte dallo sguardo beffardo di Imamura Shohei per arrivare fin quasi a soglie kubrickiane. Non mancano incertezze, in questo dipinto, ma la cura e l'angoscia sono tali da lasciarlesullo sfondo, assai sfocate.

 

La rubrica è a cura di www.asiaexpress.it

 

IL TRAILER DI THE TALE OF IYA

 

 

 

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