Cinquanta sbavature di nero, di Michael Tiddes

Punto d’arrivo nel percorso della Wayans family, tra tutti i titoli parodistici è quello che più apertamente decide di fare i conti con il mito e le derivazioni della superiorità dell’uomo nero

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Got my mojo working but it just won’t work on you
I want to love you so bad I don’t know what to do
Going down to Louisiana to get me a mojo hand
I’m going to have all you women, getcha under my command
Muddy Waters

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Mi ha chiamato negro! La cosa mi eccita…chiamami negro ancora!
una battuta del film

La parabola della Wayans family all’interno dei meccanismi di Hollywood ha sempre avuto a che fare in un modo o nell’altro con una volontà di riappropriazione di codici che l’industria degli Studios frequenta ad appannaggio assoluto di realizzatori e pubblico dell’establishment bianco.
I risultati spesso smarriscono l’intento di riposizionamento originario in una incertezza dei modi espressivi che, come con geniale sintesi notava Leonardo Lardieri riguardo al precedente team up Marlon Wayans/Michael Tiddes, finisce puntualmente per far saltare “dialogo e confronto tra parodia e credenza, confondendo così in fondo servilismo e coerenza”.

Cinquanta sbavature di nero rappresenta allora verosimilmente un punto d’arrivo nel percorso degli autori di White Chicks, e tra tutti i titoli a cornice parodistica quello che più apertamente decide di fare i conti con il mito e le derivazioni della superiorità dell’uomo nero.  In questo sembra quasi un Eddie Murphy del periodo in cui il comico rappresentava un modello perfetto di successo per la comunità afroamericana, potente ed elegantissimo come raccontavano alcune sue patinate commedie hot come Il principe delle donne, quest’ultimo forse il vero riferimento nascosto del film nel suo mettere in scena neri milionari oltre allo stereotipo del delinquentello sbandato.
Va da sé che la supremazia si incarna innanzitutto nell’incendiario e arcaico fuoco sacro sessuale, lo stesso che Muddy Waters e gli altri eroi del Delta cantavano nei loro blues bollenti e pagani, e così Marlon Wayans e il suo complice dietro la mdp indugiano senza remora alcuna in sfacciatissimi sketch triviali che non si fanno problemi a mettere in scena protesi abnormi e deformate in un clima di full frontal da caricatura sui giornaletti da collegiali (peni elefantiaci, testicoli fuori misura…).

Nell’ottica di riportare tutto a casa, e cioè soprattutto il predominio sui sogni erotici della classe dominante, per forza di cose il bersaglio principale è la saga per desperate housewives WASP di E.L. James, ma Wayans e Tiddes, insieme allo sceneggiatore Rick Alvarez che è una sorta di componente aggiuntivo della famiglia, si tolgono il gusto di mettere alla berlina, per dire, anche la recente e ripetuta tendenza a frustare gli schiavi neri nei film di Tarantino o McQueen, e riconquistano i territori insediati da Channing Tatum con il suo Magic Mike, o dalla visione bianca e arida del jazz contenuta in Whiplash.

Come sempre, il meccanismo interno della citazione rovesciata è completamente travisato da questi prodotti che sembrano non centrare mai lo scardinamento meravigliosamente rovinoso del demenziale doc, ed è difficile appuntarsi anche solo una battuta che funzioni davvero (anche quella, per altro malauguratamente in tema, su Bill Cosby): per qualcosa di veramente irriverente, il consiglio è quello di studiarsi per bene la parabola anarchica dello schiavo ebreo-etiope Gregory Hines nell’episodio dell’antica Roma ne La pazza storia del Mondo di Mel Brooks

 

Titolo originale: Fifty Shades of Black

Regia: Mike Tiddes

Interpreti: Marlon Wayans, Kali Hawk, Jane Seymour, Fred Willard, Mike Epps

Distribuzione: Notorius Pictures

Durata: 92′

Origine: Usa 2016

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