City of stars? Il film-YouTube e la losangelizzazione del mondo

La messa in scena Ctrl+C Ctrl+V di Chazelle inanella momenti di altro cinema, raccontando l’oggi solo nell’ossessione per l’eccezionalità. Il “fattore umano” della vecchia scuola è ben lontano

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Probabilmente il segmento di La La Land più prossimo a Singin’ in the Rain non è quello in cui Ryan Gosling accenna il passo di danza à la Gene Kelly, aggrappandosi per un attimo a un lampione, nel continuo gioco citazionista per accenni e strizzatine d’occhio messo in atto da Damien Chazelle, ma il duetto sul leitmotiv City of Stars.

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Quando Mia si siede al piano accanto a Sebastian, intonando la seconda strofa del brano – City of stars /Just one thing everybody wants/ It’s love / Yes, all we’re looking for is love from someone else – evoca lo stesso conflitto tra parola e immagine del film di Donen, nel momento in cui Don Lockwood descrive la propria formazione accademica mentre le immagini ne tradiscono una meno blasonata gavetta nel music hall.

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singing in the rain la la land

Se quella sequenza era un passaggio chiave, nonché superbo momento di immersione per un musical che rifletteva sull’epocale passaggio dal muto al sonoro, anche la scena di City of Stars appare centrale per comprendere lo spirito di La La Land. Falsi almeno quanto le ricostruzioni di Lockwood, i versi di Mia Dolan vengono contraddetti da ciò che il film ha cura di mostrarci sin dall’inizio, da quell’autostrada in coda verso il suo american dream: non una città in cerca d’amore, ma in cerca di fama.

Come già in Whiplash, non appena messi di fronte alla scelta amore-successo, i due protagonisti optano senza troppi patimenti per il secondo termine, seguendo la giovane ma già chiara poetica di Chazelle.  E del resto, ciò che nel film risulta più interessante è proprio questa ossessione verso un’eccezionalità, continuamente negata.

Nell’ impianto museale messo in piedi dall’autore trentunenne, che studia il classico con una messa in scena “Ctrl+C – Ctrl+V”, inanellando momenti di altro cinema, altri umori, è soltanto questo il dato che ci connette all’oggi e ci rivela qualcosa sulla nostra epoca.

Non quella di Donen, o di Minnelli,  dei musical MGM o di Demy, rispetto ai quali il film opera una selezione da playlist Youtube, bignami per spettatori troppo giovani per ricordare gli originali o troppo pigri per riscoprirli: e, del resto, a che pro, se c’è la possibilità di rivivere tutte le sequenze salienti in sole due ore?

La La Land è in tal senso il perfetto catalizzatore di un’era in cui crediamo che il risparmio del tempo sia il bene più prezioso, sprecandone poi il doppio o il triplo a scrollare post sui social (ma, allora, per provocazione, proviamo a rilanciare: anziché il film, non potremmo guardare solo questo video, ancor più breve ed essenziale?).

La La Land è il film-compilation che, pur vivendo in un’agonizzante nostalgia per tutto ciò che è passato, non conduce né al desiderio di riscoprirlo né di trarne un nuovo immaginario, come accadeva nel Postmoderno degli anni 80.
Ci si accontenta di affastellare, come in un negozietto vintage, tutto un apparato bric à brac in grado di riattivare un immediato quanto superficiale rimpianto per ciò che ci ha preceduti.

Esponente di una generazione cresciuta col refrain della morte del cinema, Chazelle sembra in parte deridere questa vocazione nostalgica – rappresentata dal personaggio di Sebastian, talmente devoto all’epoca d’oro del jazz da diventarne feticista (lo sgabello di Hoagy  Carmichael…) – ma finisce per aderirvi completamente.

L’iniziale presa di distanza dal suo protagonista si ribalta, nel corso del film, in una totale sovrapposizione del pensiero del regista con quello del personaggio e la stessa identica presunzione: quella di aver rinunciato a tutto, ai soldi come all’amore, pur di restare fedele ai propri ideali.

emma stone la la landTorniamo allora ai sogni inseguiti da questi personaggi: se Chazelle sta con Sebastian, cosa pensa di Mia? Il personaggio di Emma Stone, cameriera-attrice in cerca della chance che la tramuti in star, è il vero trait d’union tra classico e contemporaneo: ricalca la Esther Blodgett/ Vicki Lester di È nata una stella e la Kathy Selden di Cantando sotto la pioggia ma arriva fino alle migliaia di aspiranti-qualcosa dell’era del talent show, in una esasperazione generalizzata del talento, per cui ogni attitudine deve necessariamente finire sotto i riflettori.

E se Los Angeles, come dimostrano le Cenerentole dei musical d’ambientazione hollywoodiana, è sempre stata il luogo deputato al sogno del successo, adesso questa vocazione alla straordinarietà, con l’appello – assai più sincero della richiesta d’amore – alle luci della città-luci della ribalta perché risplendano su di sé (“City of stars/Are you shining just for me?) trasmigra in ogni dove, in una losangelizzazione del mondo.

La La Jersey

paterson jim jarmusch

La racconta, con meno scintillio di lustrini, anche un altro film, sulla costa Est.  Tra i sobborghi del New Jersey, Jim Jarmusch ferma la macchina da presa su un conducente d’autobus, Paterson di Paterson. “Paterson al quadrato” in un film che gioca apertamente sui doppi, interrogandosi sul desiderio frustrato dell’essere artisti e la bellezza di essere “soltanto” normali.

Come la Mia di Emma Stone, sempre circondata da doppi e replicanti  (altre cameriere-attrici, altre rivali per la parte, pronte a intonare le battute vestite esattamente come lei) che mortificano di continuo la sua supposta unicità, anche attorno al silente personaggio di Adam Driver Jarmusch crea una sottile rete di nomi ed eredità, lavorando sull’analogo tema del doppio: può esserci ancora spazio, nella città di Paterson, per un altro poeta, dopo l’opera di – ecco l’altro raddoppiamento – William Carlos Williams?

Assediato, in modo tenero ma non per questo meno opprimente, dalle aspettative della compagna Laura sui suoi poemetti, scritti con rigorosa disciplina nelle pause dal lavoro, mentre lei tenta di farcela, da folksinger o pasticciera, poco importa, (come se Jarmusch li avesse creati pensando unicamente al verso A man like a city and a woman like a flower, who are in love del poema di Williams) anche Paterson compone versi ispirati a piccoli oggetti e gesti quotidiani (i fiammiferi, la birra serale al bar) annotando tutto in un quadernetto che per Laura è il viatico verso il successo.

E invece, come scrive Williams, “Say it, no ideas but in things”: la vera poesia di Paterson scaturisce dalla routine quasi ascetica delle sue azioni quotidiane; non dalle annotazioni racchiuse nel notebook che, una volta distrutto, libera le infinite possibilità della pagina bianca, ma dalle cose, dagli oggetti che i poemi nobilitano, senza che ve ne sia vero bisogno.

Allora Jarmusch ci ricorda che se la poesia si nutre del quotidiano, è perché ogni vita è eccezionale, solo in virtù del suo fattore umano.

Sully Clint EastwoodLo stesso invocato come un frontale e potente monito, dinanzi a un mondo sempre più automatizzato e digitalizzato, da Clint Eastwood nel finale del suo – volutamente minore – Sully, disaster movie giocato tutto in sottrazione per lasciare spazio al dubbio morale del protagonista.

Un punto di vista che trova eco in un altro autore della vecchia guardia, lo Zemeckis di Allied, che affida a una straordinaria Marion Cotillard la battuta-chiave sul “non fingere mai le emozioni”.
Entrambi i film allontanano i riflettori dal singolo in favore di uno sguardo collettivo: la coppia e la cellula della Resistenza nella love/spy-story in Allied; la working class della “migliore New York” in Sully, a cui l’opera è dedicata, a dimostrazione di come l’eccellenza dell’individuo, da sempre parte integrante della mentalità e del cinema americani, trovi una ragion d’essere soltanto a servizio di un gruppo di persone, nell’ottica di un impegno civile.

Ma lo svecchiamento in atto a Hollywood non sembra aver tempo per questi sentimentalismi old fashioned. Lo spregiudicato La La Land ha tutto per piacere, farà incetta di premi e Chazelle salirà di grado nel ranking registico. Certo è che l’annuale autocelebrazione degli Oscar, attraverso un’opera che ne sancisce in realtà la museificazione, sembra sempre più il funeral party dell’industria hollywoodiana.

 

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