Columbus, di Kogonada

Il cineasta coreano è il destinatario della Creative Distribution Fellowship, il nuovo workshop del Sundance Institute per i film completati che cercano aiuto nel marketing e nella distribuzione

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La città di Columbus, Indiana, è un posto che alcuni dei più grandi nomi dell’arte moderna, e dell’architettura del mondo, hanno reso a partire dai primi anni ’40 un museo virtuale di architettura moderna, una cittadina con meno di cinquantamila abitanti battezzata per questa pecularietà l’Atene della Prateria. Opere ed edifici sparsi in tutta la città da  I.M. Pei, Richard Meier, Robert Venturi, Eliel and Eero Saarinen, Harry Weese, and Deborah Berke, ed ancora Henry Moore, Dale Chihuly, Jean Tinguely, and Robert Indiana. Un progetto nato dall’idea di un magnate dell’industria automobilistica, Irwin Miller, che ha deciso di sponsorizzare il sogno di costruire un posto in cui è esplicitato visivamente l’intento di migliorare la condizione umana attraverso l’architettura urbana, che ha trasformato Columbus in una meta che attira ogni anno migliaia di studiosi o semplici curiosi desiderosi di ammirarne la bellezza.

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In tale contesto urbano ideale è ambientato il film di Kogonada, nome di battaglia ispirato dallo sceneggiatore di Ozu, cineasta nato in Korea e che nei suoi lavori cerca riferimenti diretti in Ingmar Bergman, Wes Anderson, Robert Bresson, Richard Linklater e lo stesso Ozu. Il film è stato uno dei due destinatari della Creative Distribution Fellowship, il nuovo workshop del Sundance Institute per i film completati che cercano aiuto nel marketing e nella distribuzione. 

Mentre suo padre è in coma, Jin si ritrova bloccato a Columbus. Sebbene non ami l’architettura, Jin stringe un’amicizia con Casey, una ragazza che lavora nella biblioteca della città (evitando il college e il suo futuro) che si rende disponibile a mostrargli le meraviglie locali. Con una curiosa intimità riservata agli estranei, Jin e Casey esplorano sia la città che le loro emozioni conflittuali: la relazione estraniata di Jin con suo padre e la riluttanza di Casey a lasciare sua madre, una tossicodipendente in recupero.

Con una lunga serie di inquadrature rigorose, attente ad evitare ogni minima sbavatura, replica della perfezione stilistica del territorio osservato, Kogonada restituisce un ambiente atemporale, fermo in un perpetuo ordine meditativo nella simbiosi perfetta di cemento e natura, una struttura messa a repentaglio dagli sbocchi emotivi dei protagonisti. Piccole scalfiture che bastano per mettere in discussione l’intero progetto, mentre le basi restano solide ed imperturbabili, l’apparente tranquillità assume un volto dai tratti glaciali, del tutto inutile nella sua compostezza a frenare gli insondabili fremiti della pulsione.

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L’originalità consiste in una deviazione sempre e comunque misurata, una ribellione composta dietro una vetrina pressurizzata che attutisce ogni rumore o accenno di protesta. Una narrazione lontana dal canone classico del picco seguito da uno stato di quiete, sostituito piuttosto da un’onda sublimata incandescente immersa in un clima laconico e rarefatto.

Un mondo nel quale Casey crede di vivere un’esistenza gratificante, prima di svegliarsi e ritrovarsi dentro una prigione dorata, per la quale sta sacrificando i sogni in un abbaglio di bellezza che la confonde nel confortevole sollievo dell’indecisione. Talmente accecata da finire in un limbo di passività e di riluttanza al cambiamento, con il tradimento di una naturale propensione ambiziosa, e resa incline al disfattismo. Jin, il corpo estraneo, costretto ad attendere la sorte di un padre che non ama, resta impassibile al vulcano modernista grazie ad una maturità di cui Casey è sprovvista, ed attraverso la sua figura il regista opera un altro ribaltamento, un universo parallelo dove è lui stavolta a condurre il gioco in un percorso di accompagnamento tra le ombre, nelle miserie di una quotidianità fumosa, molto meno concreta e stabile di come vorrebbe far credere.

 

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