CONDANNA CON IL CONDIZIONALE, di Umberto Martino

Forse succede a molti, ogni tanto, di specchiarsi e stupirsi di come si è arrivati a trovarsi lì, in quel preciso istante, con quella faccia e quelle mani, quei vestiti, quella casa e tutte quelle storie alle spalle…

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Forse succede a molti, ogni tanto, di svegliarsi – magari in un bel mattino di un giorno non lavorativo – e di sentirsi dentro un languore… una sensazione di inadeguatezza, di mancanza. A nulla, in quei momenti, valgono le considerazioni più ottimistiche che, per innato senso di conservazione, tendiamo a prospettarci con intenti giustificatori: “in fin dei conti oggi non si lavora”, “è pur sempre una bella giornata”, “questa terribile settimana è passata”… Nemmeno la carezza di una colazione consumata tranquillamente, realizzata con la concentrata minuziosità propria delle api intente a costruirsi l’alveare, con tutti i forellini delle fette biscottate sigillati da uno scrupoloso velo di burro e la serenità che solo uno strato uniforme di marmellata può dare…, nemmeno tutto questo riesce a distrarci da quel senso di fastidio; come quando un invisibile capello ci stuzzica da qualche parte il viso, e non riusciamo ad afferrarlo, finché non ci guardiamo allo specchio…

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Forse succede a molti, ogni tanto, di specchiarsi e stupirsi di come si è arrivati a trovarsi lì, in quel preciso istante, con quella faccia e quelle mani, quei vestiti, quella casa e tutte quelle storie alle spalle. Stupirsi di essere parte di questa impressionante ed infinita catena di eventi infinitesimi, che istante per istante ci conducono ad essere quello che siamo, e non altri. Allora la nostra mente, forse condotta dalla reazione chimica di qualche preciso amminoacido – o forse no -, entra nella sua personale macchina del tempo, fatta di condizionali e di particelle dubitative… una “If-Machine”; e comincia ad elaborare percorsi immaginari che avremmo potuto esplorare, oppure ‘potremo’ esplorare, o ‘potremmo’… potenza di una consonante…

Avremmo potuto ricevere il cinquanta per cento del nostro codice genetico da un altro di quei trenta, quaranta milioni di spermatozoi, chissà; un altro naso, dei piedi diversi; magari una minore tendenza all’introspezione, un’innata predisposizione verso gli acquafan della riviera romagnola… Oppure, senza cadere nelle trappole metafisiche, avremmo potuto prolungare di un’ora – di un giorno, di una settimana – la permanenza in quella calda alcova nascosta a tutto e a tutti, ma tradita dall’imponenza della pancia di nostra madre; in questa maniera forse gli influssi degli astri che, come molti credono, non smettono mai di ispirare le condotte degli esseri umani, avrebbero potuto determinare chissà quali meravigliose e terribili coincidenze per il futuro, sì da condurci a rimirare la nostra immagine in ben altri specchi, in ben altri luoghi…

E se fossimo stati scambiati nella culla? Thomas, detto Toto, ad esempio, ne è convinto. Si trova a vivere la vita di Alfred anziché la sua; e, arrivato al termine dei suoi anni, decide di riprendersi ciò che gli spettava (Toto le héros, 1991 (1)). Anche lui, spesso, si guarda allo specchio; come tutti noi, alla ricerca di qualche indizio che ci mostri che la vita di cui disponiamo è proprio la nostra. O che, invece, non sia arrivato il momento di riappropriarci di ciò che ci è stato defraudato, o quello di disperarci per un passato di opportunità che non ci apparterrà mai più.

Chi avremmo potuto essere? Bastava un cromosoma, un segmento infinitesimo di poche molecole; un solo cromosoma, e avremmo potuto sperimentare l’ineffabilità del sesso che non ci appartiene (“Once a man, like the sea I raged…, once a woman, like the Earth I gave…”). Una molecola di adenina in più, la timina si scambia con la guanina, e Teena Brandon – Brandon Teena per gli amici – avrebbe avuto qualche problema in meno con sé stessa e con tutti quelli che non accettano l’idea che qualcuno possa rifiutare il proprio destino (Boys don’t cry, 1999 (2)). Se poi ci lasciamo andare a questi pensieri, a riflettere sulla follia che costituisce il pilastro sul quale poggia la nostra esistenza, in termini di casualità, ineluttabilità e probabilità, allora corriamo veramente il rischio di impazzire… Magari cominciamo a desiderare di essere quell’attore famoso, ricco e osannato… Chissà come vive, cosa pensa… quanti soldi ha… Purtroppo, però, non si può entrare nella testa degli altri. Oppure sì? (Essere John Malkovich, 1999 (3)).

Se…

Se quel giorno, nell’esatto istante in cui stavamo per impartire al nostro cervello il comando che avrebbe – di lì a un millisecondo – rilasciato i muscoli tensori delle falangi che trattenevano quella lettera, già penzolante nel buio vuoto della cassetta postale…
Se, quella fredda sera di fine autunno appena sopraggiunta, avessimo deciso di tornare tra le risapute braccia – confortevoli e tiepide – delle nostre mura di casa, invece di tentare la strada di braccia nuove e desiderate…

“Tu sembri una ragazza che sta per commettere un errore”, dice il solito Auteuil indecifrabile e sornione a una Vanessa Paradis in procinto di abbracciare le acque; ed il caso irrompe sconvolgente nella vita di entrambi: due persone che, ognuna a modo suo, sentono di avere molti crediti nei confronti della vita. Così una ragazza, priva delle energie necessarie per confrontarsi quotidianamente con il proprio impulso vitale, decide di guardare la morte negli occhi non una volta sola, ma dieci, cento volte ogni sera. La Grande Consolatrice arriverà a cavallo del primo coltello, quello lanciato all’altezza del collo? O forse dell’ultimo? Un colpo di tosse tra il pubblico, un oggetto che cade, un brivido di colui che ormai è il padrone del suo destino, ed ecco che la vita se ne va… (La ragazza sul ponte, 1999 (4)). Sentite Leconte: “Il destino consiste proprio nel fatto che si creino le occasioni per determinati incontri: a volte se certe strade non si incrociassero potrebbero accadere cose terribili.”

Strade che si incrociano. Strade che conducono chissà dove. Strade che, man mano che si procede, si stringono sempre di più, si trasformano in viuzze, poi in mulattiere, poi in semplici sentieri. Ti portano a casa di tuo fratello malato, che non vedevi da anni, che cartelli indicatori scambiati da chissà quali folletti maligni ti avevano impedito di raggiungere, mentre il tempo, indifferente, passava. Non tutte le scelte sono dettate dal caso; molte le facciamo noi, consapevolmente. Sappiamo di sbagliare, ma un interiore rovello ci dice di proseguire – straight on! – di vedere dove si arriva; fino a scoprire che, magari, non si arriva proprio da nessuna parte, ma che era importante verificarlo coi nostri occhi, sperimentarlo sulla nostra pelle. (Una storia vera, 1999 (5)).
Strade che si imboccano, e giunti a metà ti guardi indietro: troppo tardi per tornare, troppo lontana la meta. Non resta che scavalcare il ciglio e sdraiarsi sul prato a guardare le nuvole. A chiedersi ancora una volta: e se…

Caterina si chiede se la scelta di prendere i voti, con le sue conseguenze di autoisolamento dalla vita ‘normale’, con le sue limitazioni nella propria vita di donna, sia la scelta giusta. Teresa si domanda che senso abbia guardarsi allo specchio, dopo aver abbandonato il bambino al quale arbitrariamente aveva donato la vita. Ed Ernesto si chiede se l’etica della produzione, del commercio, della moneta sia l’unica possibile. Tre personaggi in mezzo alla strada; tre conduttori di risciò con clienti troppo pesanti da trasportare, come le storie di ognuno di noi. (Fuori dal mondo, 1999 (6)).
Ed ogni tanto qualcuno si guarda intorno; in un unico istante vede sé stesso e tutta l’infinita complessità che lo circonda, finendo per domandarsi: “Ma che cosa ci faccio qui?”. L’inquietudine cresce.
Un primissimo piano del soldato Witt, elmetto calato sulla fronte, nero sudore untuoso che attira i fili d’erba sul viso… e sentiamo i suoi pensieri. Pensieri di morti in fila d’attesa; che si domandano il senso della loro presenza in quel luogo, in quel momento. Scelte obbligate; strappati al tranquillo fluire delle loro esistenze, i fanti della compagnia Charlie attendono solo l’istante in cui un passo, un ennesimo passo, un piede posto sopra un piccolo rialzo di terra, farà sporgere loro la testa quanto basta per permettere ad un morto virtuale come loro, “… ma la divisa di un altro colore…”, di prendere la mira e strapparli alla vita. (La sottile linea rossa, 1998 (7)). In fin dei conti, come recitava il sottotitolo del film di Malick, “ogni uomo conduce la sua guerra”. Ogni uomo è stato spedito sul fronte senza chiederlo.

Fin qui abbiamo parlato dei “se…” che, retrospettivamente, avrebbero potuto condurci a realtà differenti da quella odierna. E ora?

“Le cose, una volta accadute, riesco sempre a vederle per quello che sono – il passato lo padroneggio niente male. E’ il presente che non capisco.”
(N. Hornby, Alta fedeltà)

Bene, da domani si cambia.
Basta con questa continua ricerca del successo, del denaro, delle comodità. Basta con questa vita di plastica, immemore dello scorrere del sangue nelle vene e del pulsare delle tensioni vitali. Basta con l’artificiosità e la convenzionalità del mondo che ci circonda, con l’incomunicabilità delle sensazioni e l’occultamento dei sentimenti… Riappropriarsi della vita…
Mandare al diavolo in un colpo solo il lavoro, la moglie, la figlia. Innamorarsi di una ragazzina. Possibilità; scelte realizzabili, ma definitive. Seguire i richiami originali, quelli provenienti dalla nostra fisicità, dal nostro essere animali, dall’essere fatti di carne e sangue; voler sentire il nostro corpo reagire agli stimoli, aprirsi all’esterno, respirare, sudare… Scegliere di essere sporchi; aggrapparsi a Lucifero mentre cade. (American Beauty, 1999 (8)). Oppure, all’opposto, prendere coscienza dell’inattuabilità di una scelta risolutiva; regalarsi solo una vacanza, una distrazione, neanche troppo convinti; riassaporare lontane sensazioni, cambiando vita solo per pochi giorni. Perché ci si è accorti che la strada fatta è veramente troppa, e non si può che continuare. O no? (Pane e tulipani, 2000 (9)).

Due racconti del terrore. Rob teme che l’effettuazione di una scelta, una di quelle importanti, quelle che ti cambiano la vita, implichi necessariamente la rinuncia a tutte le altre strade percorribili. Per questo motivo, giorno per giorno, evita di scegliere. Continua a vivere nel mondo delle opportunità, e per non perderne nessuna rischia di non conquistarne alcuna; è consapevole che qualsiasi decisione determinerà una cesura nel fluire della sua esistenza, perciò seguita a lasciarsi diverse porte aperte da imboccare per la fuga. Nel bel mezzo della sua vita, Rob ha un corto circuito dei sentimenti, causato dal perentorio affermarsi della sua voglia di vivere e dal contemporaneo e disperato grido proveniente dal proprio amore per Laura; due necessità paralizzate dal terrore di prendere decisioni sbagliate (Alta fedeltà, 2000 (10))

Anche Chow e Li-Chun non riescono a cedere ai richiami che i sensi lanciano loro; sono un marito ed una moglie che sanno di essere traditi, sono due persone che scoprono, lentamente, di avere delle affinità, di desiderare la reciproca compagnia. Ma il timore di scegliere, l’incapacità di determinare il proprio futuro, la riluttanza al cambiamento, hanno la meglio. Perderanno questo treno; si perderanno. (In the mood for love, 2000 (11)). Due storie del terrore: quello che si prova nel guardare al futuro, quando l’epoca della speranza “a priori” è ormai lontana, e le esperienze vissute lasciano ogni anno che passa nuovi strati di corteccia sul tenero midollo che una volta eravamo.
Eppure l’unica certezza che ci accompagna per tutta la vita è proprio che quest’ultima, un giorno, ci abbandonerà. Nel caso del film di Frears, la consapevolezza di questa evidenza banale determina nel protagonista uno sviluppo smisurato del valore che attribuisce ad ogni singola scelta, tanto da imprigionarlo in una tela vischiosa di paure. Una reazione parallela a questa è quella che, invece, prevede l’assenza totale di limitazioni: il vivere alla giornata. Come nel caso di Fuckhead, in Jesus’ son (1998) (12), che, guidato da un poderoso – per certi aspetti tragicomico – istinto autodistruttivo, salta più o meno volontariamente su tutti i treni diretti verso il nulla. Ma proprio da questa sua capacità di vedere tutto con occhi disponibili alla scoperta, nascerà l’impulso alla salvezza, la spinta a porsi degli obiettivi, il desiderio di opporsi all’inesorabilità della morte. O, ancora, in Conta su di me (2000) (13), nel personaggio di Terry: di nuovo un giovane alle prese con i fondamentali quesiti escatologici, nascenti dall’essersi misurato fin da bambino con l’assurda vacuità, con la feroce sottrazione dei sentimenti che il lutto impone. “Se non sai la strada, tutte le strade sono giuste”: ed infatti Terry sceglie l’apparentemente libera vita del vagabondo.

Quanto detto finora, è evidente, non è che un tentativo di sistematizzare, nel modo più razionale possibile, un insieme indistinto di sensazioni e pensieri riferiti all’universo delle possibilità, quando lo si studi attraverso le lenti d’ingrandimento del proiettore cinematografico… immagini che tornano alla mente, trance in stato di veglia, contatti immaginari tra vita reale e vita fantastica, fatta di celluloide; la grandiosità del cinema, la sua peculiarità rispetto alle altre arti visive, risiede proprio nella sua enorme capacità di coinvolgere lo spettatore, di svincolarlo dai legami con la sua realtà personale, per, è il caso di dirlo, ‘proiettarlo’ in una, dieci, cento realtà differenti… Cinema come fabbrica di scelte, fucina di opportunità, luogo mitologico dove realizzare, anche solo per un’ora e mezza, lo scambio tra sé stessi e i personaggi con cui ci si identifica.

Genitore paziente che, rimboccandoti le coperte, ti racconta la favola che ti attrae e ti spaventa, il cinema è la più grande delle ‘If-Machine’ che l’uomo potesse ideare; lo spazio in cui, magicamente, ci troviamo a vivere vite diverse dalla nostra; un terapeuta che ci mostra pregi e difetti delle nostre scelte e delle nostre non-scelte; il laboratorio di chimica umana dove, per innumerevoli volte, possiamo finalmente condurre l’esperimento dell’esistenza che, nella vita reale, ci è concesso di studiare una sola volta. Il tema delle possibilità (opportunità /scelte/probabilità) è il filo conduttore di queste riflessioni, e gli esempi citati sono, ovviamente, solo alcuni tra mille o diecimila film nei quali esso è presente; ma è certo che da questa esposizione scaturisce in maniera decisa l’enorme potenziale del mezzo cinematografico come creatore di mondi paralleli, virtuali quanto si vuole ma densi di capacità comunicativa, di forza interpretativa dell’attuale, di vitalità culturale.

Sicuro, il cinema non è la cosa più importante del mondo; ma se è vero, come è vero, che non passa giorno in cui ognuno di noi non si interroghi sulle conseguenze di scelte passate o future, che non si chieda “Ma, se io…”, allora possiamo ben dire di essere tutti condannati a vita con il condizionale; ecco allora che il cinema, in questo processo senza appello, può essere considerato giudice, difensore e pubblico ministero…
Note ai film citati:

(1) TOTO LE HEROS – UN EROE DI FINE MILLENNIO, di Jaco van Dormael
(Belgio – Francia – Germania, 1991)
Jaco Van Dormael caratterizza il suo primo film tanto con frequenti ellissi temporali nella successione delle immagini, quanto con la forte rilevanza della colonna sonora (nell’associazione tra parole, musica e rumori). Peculiarità strettamente connesse con il carattere onirico delle considerazioni del protagonista che, ormai anziano, torna col pensiero all’età infantile e giovanile: un passato – ed un presente – che ritiene, forse a torto, forse a ragione, condannati inesorabilmente da uno scambio di neonati del quale sarebbe stato vittima. Il motivetto di fondo del film (“Boum”, cantata da C. Trenet), che rimane a lungo nella mente dello spettatore, si salda ossessivamente ai ricordi d’infanzia del protagonista, quasi a canzonarlo con il forte contrasto tra la sua situazione oggettiva e quella, idilliaca, che la musichetta ispira .

(2) BOYS DON’T CRY, di Kimberly Peirce
(USA, 1999)
Ancora un film d’esordio: la regista, Kimberly Peirce, si ispira alla storia – realmente accaduta negli Stati Uniti – di una ragazza dai lineamenti fisici spiccatamente androgini, che riesce ad indurre in errore numerosi coetanei (e, soprattutto, molte coetanee). Ma, si sa, la provincia americana non gradisce questo tipo di sorprese.
Atmosfere cupe, tensione crescente, interpretazione da Oscar per la protagonista, Hilary Swank, qualificano questa pellicola intrisa di violenza fisica e – soprattutto – psicologica.

(3) ESSERE JOHN MALKOVICH, di Spike Jonze
(Gran Bretagna – USA, 1999)
Dalla pubblicità al lungometraggio: un percorso battuto frequentemente negli USA e, sempre più spesso, anche in Europa. Così arriva al suo primo film Spike Jonze, genero di F.F.Coppola; lo sceneggiatore tv Charlie Kaufman gli scrive questo film leggero e divertente – specie nella prima parte – che trova la sua ragion d’essere soprattutto sull’idea portante: la follia di poter sperimentare l’ingresso nella mente di un altro, poter provare le sue emozioni, assaporare la vita per il tramite dei suoi sensi. Neanche troppo metaforicamente, uno dei sottotemi del film è “come far soldi entrando nella testa della gente”: si tratta forse di un tentativo di biasimo nei confronti della pubblicità, “anima del commercio” e fondamento dello stile consumistico?

(4) LA RAGAZZA SUL PONTE, di Patrice Leconte
(Francia, 1999)
In un bianco e nero di grazia assoluta – fotografia di Jean-Marie Dreujou (“I ragazzi del Marais”) – il regista de “Il marito della parrucchiera” mette in scena una storia (d’amore? Di casualità?) in cui l’eleganza della recitazione di Daniel Auteuil emerge e addirittura sovrasta l’armonia del film nel suo complesso. Gli occhi della Paradis sembrano, ad ogni inquadratura, sempre più profondi: si adattano perfettamente a questo racconto pieno di erotismo sublimato e mascherato.

(5) UNA STORIA VERA, di David Lynch
(Francia – Gran Bretagna – USA, 1999)
Nemmeno a dirlo, la storia del film è ispirata ad un fatto realmente accaduto. Apparentemente lontano dal Lynch visionario e metamorfista, in realtà il tema del cambiamento è presente e va di pari passo con quello delle occasioni perdute, delle scelte errate. La pacatezza dei ritmi di scena, la distensione con la quale le sequenze si succedono, se da un lato contrastano con l’angoscia interiore che impone al protagonista di intraprendere il suo viaggio catartico, dall’altra rispecchiano la serenità del punto di vista di chi si trova alla fine dei suoi giorni a tirare le somme. La performance dell’attore protagonista, R. Farnsworth, inietta direttamente in vena il senso della fatica del vivere e l’inquietudine del “dopo”. L’attore è morto pochi mesi dopo l’uscita del film.

(6) FUORI DAL MONDO, di Giuseppe Piccioni
(Italia, 1999)
La quinta prova di Giuseppe Piccioni ottiene consensi in diverse parti del mondo, a partire (finalmente) dall’Italia. Questo film ha aperto la strada, cronologicamente parlando, alla stagione successiva, nella quale le conferme da Soldini, Moretti, Muccino, Ozpetek, Olmi ed altri ancora, fanno parlare e sperare in un concreto rinnovamento della fiducia del pubblico italiano per i film di casa propria. Film che, non necessariamente, debbano avere come unico scopo quello di blandirlo e tranquillizzarlo.
Qui, ad esempio, vengono proposti tre personaggi alle prese con una fase critica della loro esistenza: le loro vite sono de-costruite, direttamente o indirettamente, dal medesimo evento – la nascita di un bambino. Nulla sarà più come prima, dopo l’incontro con questo neonato abbandonato; come se ognuno dei tre avesse ritrovato il bambino che era, e che racchiudeva in sé l’intera potenzialità dell’essere.

(7) LA SOTTILE LINEA ROSSA, di Terrence Malick
(USA – Canada, 1998)
Un film di guerra? Un film contro la guerra? Un film sulla assurdità, sull’incredibilità, sull’insostenibilità del concetto di guerra, sulla sua incompatibilità con la minima parvenza di rispetto per l’unicità di ogni essere umano. L’attesa dello scontro, sottolineata con un sonoro incentrato sui suoni della natura, è molto più angosciante dello scontro stesso; una sorta di quiete prima della tempesta. Non si può parlare di alcun aspetto tecnico senza sminuire l’insieme; se vi è una particolarità che spicca sulle altre è senz’altro la coralità del cast di attori, ovvero l’assenza di un ruolo centrale di protagonista, nonostante la presenza di numerose stelle di prima grandezza. Naturalmente non ha vinto alcun Oscar.
C’è un romanzo che ispira il film e che ne condivide il titolo (a firma di James Jones, pubblicato nel 1962): venne preso a soggetto di un altro film, omonimo, con la regia di A. Marton, che fu snobbato dal pubblico e bistrattato dalla critica (1964). James Jones è l’autore del romanzo “Da qui all’eternità”.

(8) AMERICAN BEAUTY, di Sam Mendes
(USA, 1999)
Contrastato nei giudizi (chi gridava al capolavoro, chi alla mistificazione), superpremiato agli Oscar, è innegabile che gli elementi per il successo c’erano tutti, a partire dal senso della regia di Sam Mendes (nonostante/grazie alla sua provenienza dal teatro) e dalla sceneggiatura “compiuta” di Alan Ball, per arrivare all’istrionismo di Spacey e, in generale, all’accuratezza nella definizione dei personaggi sia dal punto di vista psicologico che da quello puramente recitativo. Buona parte della sua memorabilità è dovuta ad un insieme di invenzioni teatrali, spesso sopra le righe (l’occhio di bue che seleziona Angela – Mena Suvari – annullando tutto il mondo circostante, ad esempio), e a dialoghi “gravi”, problematici, simbolici, caratteristici di una non accettazione dello status quo da parte del protagonista e del suo alter-ego (o “eroe”, come Spacey lo definisce) Rick.

(9) PANE E TULIPANI, di Silvio Soldini
(Italia – Svizzera, 2000)
L’ariosità di questo film, la semplicità della sua struttura, il sorriso di Licia Maglietta, il fascino demodè di Bruno Ganz – come la spensieratezza di fondo che lo animano, fanno di questo film di Silvio Soldini una specie di antidoto alle pressioni della quotidianità, al “logorio della vita moderna”: un Cynar da vedere, una Venezia da scoprire. Attenzione: non è che manchino implicazioni “profonde”, tematiche esistenziali, circonvoluzioni psicologiche: è solo che vengono mostrate con distacco, con serenità, più sottointese che sottolineate.

(10) ALTA FEDELTA’, di Stephen Frears
(Gran Bretagna – USA, 2000)
Costruito sul romanzo che ha decretato il successo dello scrittore londinese Nick Hornby; sceneggiato da questi assieme a Frears e allo stesso John Cusack che ne interpreta il protagonista; corretto qua e là per rendere la storia appetibile al pigro pubblico americano, che mai (?) avrebbe accettato l’originaria ambientazione inglese, “Alta fedeltà” aggiunge un altro capitolo alla rispettabile filmografia del regista d’oltremanica. Frears non ha mai veramente deluso: nelle produzioni britanniche come in quelle americane, nelle pellicole di ampio respiro come in quelle minimaliste.
Rob Gordon (Rob Fleming nel romanzo), protagonista e istanza narratrice, è un “non-eroe per caso”: le sue paturnie sono condivise da milioni di suoi coetanei che, come lui, vengono colti nel mezzo del cammin di loro vita dall’angoscia esistenziale. Dialoghi divertenti, trovate comiche, lieto fine (non tanto aperto quanto quello del libro) accompagnano questa versione cinematografica, che non fa rimpiangere il romanzo e contemporaneamente non lo supera.

(11) IN THE MOOD FOR LOVE, di Kar-Wai Wong
(Francia – Hong Kong, 2000)
La ristrettezza degli spazi scenici contrasta potentemente con l’ampiezza delle implicazioni sensoriali che il film suscita. Gusto, olfatto, udito – ma soprattutto tatto e vista, godono di questa messinscena bidimensionale alla quale ci si può abbandonare come ad una dolce ninna-nanna.
Distante da “Happy together” per ambientazione e tema di fondo, ne condivide invece l’atmosfera di struggimento, di sensualità, di nostalgia – oltre che il protagonista maschile (Tony Leung), il direttore della fotografia (Christopher Doyle), il montatore (William Chang). Quanta pioggia cade, su questi amanti impossibili; forse simbolizza il desiderio inespresso di cambiamento che i due potenziali amanti portano dentro di loro.

(12) JESUS’ SON, di Alison Maclean
(Canada – USA, 1999)
Il soggetto di “Jesus’ son” non è propriamente originale; eppure viene sviluppato dagli sceneggiatori al riparo da cadute nell’ovvio e nel prevedibile: ispirandosi all’omonima raccolta di racconti di Denis Johnson, la MacLean cerca, per dirla con le sue parole, di fare di “ogni storia un mondo a sè stante, con i suoi personaggi, colore emotivo, ritmi, persino un suo stile di regia: una dietro l’altra, a creare la più vasta storia di un uomo che viene salvato”. Perché è di questo che si tratta: della ricerca della salvezza da un destino avverso; una odissea con la “o” minuscola, in attesa di un equilibrio che tarda ad arrivare.

(13) CONTA SU DI ME, di Kenneth Lonergan
(USA, 2000)
E il Billy Crudup di “Jesus’ son” è cugino del Mark Ruffalo di “Conta su di me”; entrambi hanno nel sangue, per motivi differenti, la ricerca della salvezza, della purificazione, la guarigione dal malessere che li corrode. Scritto e diretto da Kenneth Lonergan (al suo primo lavoro di regista, ma sceneggiatore di “Terapia e pallottole” e, insieme ad altre otto mani, del prossimo “Gangs of New York” di Scorsese), il film pone un braccio consolatorio intorno alle spalle dello spettatore che pensa “Come può essere penoso vivere”.

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