Dal frammento al tutto: Gus Van Sant presenta la mostra ICONE al Museo di Torino

Abbiamo incontrato Gus Van Sant all’apertura della mostra torinese: un’occasione per sentirlo raccontare di River Phoenix, Pasolini, Burroughs, Trump, e della sua nuova serie tv When we rise

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Gus Van Sant ha incontrato la stampa presente all’apertura della mostra Icone al museo di Torino lo scorso mercoledì 5 ottobre. Il regista è stato molto disponibile (nonostante la visibile stanchezza tra viaggio e jetlag) ed è riuscito ad aggiungere, se possibile, più livelli interpretativi ai già molti esposti nella ricca personale.
Van Sant è infatti anche pittore e fotografo, e ama molto la musica e il disegno libero. In più, come si è capito durante la lunga conversazione, sviluppa ogni progetto partendo sia da intuizioni che da ricerche, anche in campo letterario, giornalistico, storico e antropologico. E si rimane piacevolmente sorpresi da come tale spessore, così denso culturalmente, sia accompagnato, come per contrappunto, da una figura, sicuramente non esile ma ancora atletica, ma allo stesso modo abbastanza timida e molto pacata.
Alla base di Van Sant pare però esserci una enorme energia intuitiva che da un frammento di idea, di esperienza, riesca a creare un discorso più complesso a rappresentare un proprio universo. Questo forse attraverso un processo dove l’idea immediata sembra sempre più importante della ricerca intellettuale.

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E infatti il regista si sofferma a raccontare una simile differenza di approccio sul set di Belli e Dannati tra Keanu Reeves (attore teatrale) e River Phoenix (attore quasi autodidatta), dove il primo partiva da un libro datogli per cercare più informazioni possibili in altri libri simili, mentre il secondo leggeva una pagina e mezzo per poi gettare il libro e lavorare sulle proprie intuizioni. Van Sant ha ricordato come l’idea di Belli e Dannati fosse nata dalla vicenda reale di Michael Parker traslata attraverso la figura dell’amato River, ma anche dall’osservazione dei giovani prostituti di Los Angeles a fine 70’s, ed è stato ricordato dal direttore del Museo Alberto Barbera l’occhio attento del regista vers

van-sant-a-torino-2o gli emarginati del sistema sociale, dai dropouts agli adolescenti in lotta contro l’autorità (come il Jamal di Finding Forrester che sfida il proprio maestro e gli schemi didattici e sociali), passando da omosessuali e prostitute.
Van Sant ammette però che la dimensione politica non sia la principale fonte del suo lavoro. Si è detto sicuramente preoccupato dalla possibile elezione di Trump parlando del popolo americano come di un popolo che sta dormendo. Ma non stiamo dalle parti del cinema militante, quanto dentro una filmografia che per frammenti costituisce una costellazione artistica di diverse realtà che il regista riesce a gestire creativamente, politicamente e commercialmente (in questo è interessante il richiamo a Quarto Potere come fonte prima di ispirazione a 14 anni).

In questa difficile collocazione in cui egli stesso vuole stare, difendendo a spada tratta le proprie intuizioni (ha ricordato come arrivò a poter fare il suo remake frame by frame di Psycho solo dopo il successo di Will Hunting e dopo vari “no” dai capi delle major), Van San ha sottolineato il benefico effetto delle serie tv sulla libertà creativa degli autori, confermando l’attesa per la messa in onda durante il prossimo inverno della sua miniserie When we rise.
In questo ci pare torni molto il suo mentore Pier Paolo Pasolini come esempio di chi usa i propri mezzi intellettuali per stanare le forme di regime dovunque si annidino (ricordiamo anche come Van Sant abbia frequentato a lungo William Burroughs, altro straordinario osservatore della manipolazione): il cineasta di Portland ha raccontato di aver passato qualche ora nel luglio del 1975 a casa di Pasolini fuori Roma mentre questi montava Salò. Purtroppo complice la lingua, Van Sant si rammarica di non essere riuscito allora a bene comunicare il proprio pensiero, ma l’intuizione era quella di poter rappresentare in forma filmica concetti e sensazioni nello stesso preciso modo in cui le icone-museo-di-torinoparole ci riescono nella letteratura. Preoccupazione che Van Sant ricorda come Pasolini non comprise o non condivise. Invece forse la cifra del suo cinema sta proprio in questa lotta costante tra idea e messa in scena, cosa dire e come visualizzarlo.

La mostra è allestita secondo un percorso lineare sulle balconate interne della Mole. In questo modo permette di seguire proprie intuizioni a partire anche da frammenti minimi come le moltissime e bellissime polaroid fatte negli anni. Emerge molto la plasticità nelle arti figurative toccate dal regista (e il curatore Matthieu Orléan ha pensato proprio a questo spunto come costante da seguire nell’arte di Van Sant). Ma è veramente interessante il modo visivo usato dal regista di schematizzare le sceneggiature, creando delle tavole in aree narrative da esplorare (come fossero concetti da drammatizzare), rappresentate come fossero anche diagrammi di Venn (e qui torna il processo matematico di Will Hunting). Il tutto corredato da varie interessanti interviste sia al regista che ad altri suoi protagonisti di percorso (ancora Burroughs) fino ad un piccolo spazio dedicato ai suoi videoclip.

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