Dalla nube alla resistenza, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, 1978

Buon 25 aprile da Sentieri Selvaggi con una riproposizione integrale (via youtube) del film che Straub & Huillet trassero da “Dialoghi con Leucò” e “La luna e i falò” di Cesare Pavese. Opera in due parti: nella prima gli dei si interrogano su colpe e complicità con i padroni e il potere; nella seconda, due abitanti delle Langhe discutono gli aspetti positivi e negativi della Resistenza

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«Pavese è il Brecht italiano. Almeno, è questo l’aspetto di Pavese che proponiamo nel film. In certi punti, è andato oltre Brecht. Intanto, Pavese, malgrado tutto, non era un ragazzo di città. E poi ha un senso del destino che Brecht non aveva. C’è anche un Pavese che è rimasto al di qua di Brecht; sono due aspetti che abbiamo voluto mettere insieme nel film e studiare l’uno in funzione dell’altro. Vedere nel Pavese interessato al mito un ritorno alle “forze oscure”, all’irrazionalità, come dicono Calvino e altri, è sbagliato. Pavese vede il mito come memoria collettiva di un pezzo di storia rimossa e lontana. Proprio dove sembra più antibrechtiano è simile a Marx e Engels che, alla fine della loro vita, andavano a studiare i rapporti di produzione sempre più lontano, fino agli Assiri. E poi ci sono episodi dei Dialoghi con Leucò che hanno una dialettica proprio brechtiana, come quando il vecchio pastore fa un falò per chiamare la pioggia e dice al figlio: “uno storpio o un cattivo non fanno niente di bene, era giusto bruciarli, sacrificarli agli dei, perché gli dei ne avevano bisogno per godere” E il figlio si alza e dice: “non voglio, fanno bene gli dei a guardarci patire, fanno bene i padroni a mangiarci il midollo se siamo stati così ingiusti tra noi altri”. E anche la riflessione di Pavese sugli dei, che sono un’invenzione degli uomini e diventano presto una nuova forma di oppressione perché apportano una legge che non esisteva. C’è da dire che Pavese vede anche il lato progressista di questa invenzione. Infatti, Eracle dice che gli dei “hanno cacciato nella grotta tutti quelli come Litierse”, che “spargevano il sangue per nutrire la terra”. Comunque il film è il più ateista che ci sia; e siccome gli dei sono anche i padroni, penso che abbiamo tirato fuori non solo il Pavese sinceramente comunista, ma anche il Pavese profondamente anarchico, nel senso storico della parola. […] I Dialoghi con Leucò e La luna e i falò, a livello di scrittura, sembrano opposti; ma noi, insieme agli attori, ci abbiamo lavorato con lo stesso metodo. […] Tra la prima e la seconda parte ci sono molte corrispondenze. Il vecchio contadino, per esempio, dice: “Quante case di padroni bisogna incendiare, quanti ammazzarne per le strade e per le piazze prima che il mondo torni giusto e noi si possa dire la nostra”. Nella seconda parte c’è Nuto che dice: “E se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli allo scuro, allora sarebbe lui l’ignorante, bisognerebbe fucilarlo in piazza”. […] Noi non abbiamo fatto un film sui contadini ma per i contadini; né un film sulle comparse. È un film sulla civiltà contadina, fatto con la collaborazione di contadini, i quali non interpretano se stessi, non vengono sfruttati come comparse; interpretano dei testi di un certo Cesare Pavese, dove si parla della loro storia, Qualcuno non aveva neanche sentito nominare Pavese; lo hanno scoperto con il lavoro sui blocchi di battute, non un Pavese generico. Non abbiamo chiesto loro di illustrare delle figure, ma di fare un lavoro che consiste nello strutturare, spezzare, ristrutturare, sovvertire e recitare un testo preciso. Non dico di più. Ciò che viene da loro in più e fa irruzione nel film è come la grazia di Dio: viene da sé, però bisogna lavorarci» (J.-M. Straub, “Paese Sera”, 7.5.1979).

«Al limite, di Pavese in quanto tale non ci interessa poi molto, quando arriviamo alla fine del film. Ciò che ci interessa sono le persone qualsiasi, che recitano i testi di Pavese, ciò che fanno nella vita, come recitano questi testi, i problemi che hanno con quello che dicono, e questo fa sì che quello che dicono, tutt’a un tratto, non appartenga più a Pavese, ma all’uomo che lo dice, lui stesso non sapeva all’inizio che fosse di Pavese. Il solo interesse del testo […] è che la persona che l’ha scritto ha fatto un certo lavoro, ha prodotto qualche cosa che ci ha colpiti e che in seguito ha resistito – ed è da questo che si giudica che ha fatto bene il suo lavoro. […] Quello che avviene con l’uomo che recita questo testo, per quanto riguarda la sua vita, per ciò che egli è, il suo modo di reagire, di camminare, di sedersi è […] molto più della critica del testo. Perché egli ne fa una cosa sua e, tuttavia, qualche cosa che resta a lato…» (D. Huillet, “Cahiers du Cinéma” n. 305, novembre 1979).

via Enciclopedia del Cinema in Piemonte

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