Dall’alba al tramonto degli anni Sessanta. Il destino di Sharon Tate

In attesa del film di Tarantino, a 50 anni dalla scomparsa, ripercorriamo la breve vita di Sharon Tate e ne viviamo ancora una volta l’impatto sull’immaginario cinematografico e non solo

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(questo articolo è stato pubblicato sul n.0 di Sentieriselvaggi21st)

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Gli anniversari, di solito, fanno tornare attuali i miti del passato. Eppure ce ne sono alcuni talmente fulgidi e immortali che nemmeno hanno bisogno delle ricorrenze, in quanto scolpiti nell’immaginario e in una memoria collettiva cristallizzata nel tempo, parente stretta di una eternità simbolica e culturale. Anche se tra un anno saranno cinquant’anni dalla sua morte e ne uscirà una rivisitazione firmata Quentin Tarantino (Once upon a Time in Hollywood, programmato per il 9 agosto 2019), Sharon Tate è sempre stata dentro al XX secolo. Le sono bastati pochi anni. E ricostruire la sua vita significa trovarsi di fronte a fatti che evocano facilmente l’idea di sincronicità, ma che allo stesso tempo non sembrano altro che crudeli coincidenze.

Sharon Marie Tate nasce a Dallas il 24 gennaio 1943. Spesso, il primo elemento connesso a questa città che richiamiamo dalla memoria è l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, che avviene vent’anni più tardi, dopo il sorgere degli anni Sessanta. Suo fratello, il senatore Robert Francis Kennedy, viene invece ucciso nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1968. Quella sera Sharon Tate è a cena con lui e alcuni amici in una villa di Malibu. Robert F. Kennedy muore proprio dopo quell’incontro, all’Ambassador Hotel – come racconterà, con misurata empatia, Emilio Estevez in Bobby (2006).

Neanche una settimana dopo, Rosemary’s baby di Roman Polanski esce negli Stati Uniti. Negli anni Sessanta, tra i canyon della California, le pratiche violente di diversi culti “satanisti” sembrano fare da contraltare all’intero clima culturale – colori, idee, arte, valori. A quanto pare fino a lambire (per finire a ribaltarne e sovvertirne le regole) i party a Hollywood, in cui gli ospiti indossano vestiti bianchi e celebrano per gioco finti riti.

La cifra dell’infanzia di Sharon Tate è lo spostamento. Il padre è un ufficiale delle forze armate statunitensi e lavora per i servizi segreti, una carriera che corona in Vietnam. Sharon, la prima di tre sorelle, lo segue dunque nei suoi frequenti cambi di sede, che includono Washington, El Paso, e Vicenza, dove nel 1961 si diploma (e viene eletta reginetta) alla scuola americana. Aveva vinto il suo primo concorso di bellezza – il primo di tanti – a pochi mesi di età. A Verona, nello stesso anno, partecipa come comparsa a Barabba, pellicola italo-statunitense il cui assistente di produzione è un poco più che trentenne Carlo Pedersoli (il futuro Bud Spencer). Conosce Richard Beymer, che la incoraggia a fare l’attrice.

Rientrata con la famiglia a San Pedro, California nel 1962, inizia a lavorare come modella e per la pubblicità. Almeno agli inizi, la diciannovenne Sharon è solita raggiungere gli studi cinematografici in autostop, e si preoccupa di convincere il padre che, a Hollywood, lei è assolutamente al sicuro. Ci riesce.

Suo agente e mentore è Martin Ransohoff, che la blinda con un contratto di sette anni. Partecipa alle serie TV Mister Ed (Il mulo parlante, 1958-1966), The man from U.N.C.L.E. (1964-68) e The Beverly Hillbillies (1962-71), e al film The americanization of Emily (Tempo di guerra, tempo d’amore, 1964). Nel 1965 fa un provino per The Sound of Music (Tutti insieme appassionatamente), ma il ruolo va a Charmian Carr.

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La prima pellicola in cui Sharon Tate ha un ruolo di rilievo parla di una setta e di omicidi rituali. Uscito nel 1966, The Eye of the Devil (Cerimonia per un delitto) è un horror diretto da J. Lee Thompson e interpretato, tra gli altri, da David Niven e Deborah Kerr. È questo film che viene citato dal giornalista Dick Kleiner, nel racconto della storia – confidatagli da Sharon Tate – di una visione che la donna avrebbe avuto, nel 1966, a casa di Jay Sebring, hair stylist di culto a Hollywood e suo compagno. Una persona – forse lei, forse Sebring – legata alle scale, con la gola tagliata.

Nel 1967 esce nelle sale La valle delle bambole (The Valley of Dolls), diretto da Mark Robson. Sharon Tate è Jennifer, una delle protagoniste, che arriva a New York in cerca di successo, e che finirà per uccidersi. È un altro ruolo importante e un successo, che le porta una nomination ai Golden Globe come astro nascente. Sharon Tate è a questo punto un’iconica onda lunga che scavalcherà il confine del millennio – il suo look in The Valley of Dolls ritornerà sulle passerelle contemporanee, il suo stile influenzerà molti anni dopo Madonna e Drew Barrymore; è testimonial per la pubblicità Coppertone e la Barbie Malibu è ispirata al suo personaggio in Don’t make waves (Piano, piano non t’agitare!, 1967, con Tony Curtis e Claudia Cardinale). Per tutti, è la nuova Marylin.

È nello stesso anno che l’attrice incontra Roman Polanski per The Fearless Vampire Killers (Per favore, non mordermi sul collo!, 1967). In questo film – che genera un impatto di non poco conto sull’immaginario erotico dell’epoca e oltre – Sharon Tate interpreta la figlia di un locandiere che, ferita da un morso, diventa un vampiro. È una pellicola che rimanda alle atmosfere horror della casa di produzione Hammer con ampie venature di humor nero. Dietro le gag emerge un sentimento di tragica ineluttabilità che sembra già un indizio sul destino che unirà la donna e il regista polacco.

L’incontro con Polanski è infatti come uno strappo. Un evento che sembra creare, nella vita di Sharon Tate, un “prima” e un “dopo”. Sharon Tate spiega così la fine della sua precedente relazione con Jay Sebring: “Prima di incontrare Roman credevo di essere innamorata di Jay […] ma la verità è che non andavo bene per Jay. Non sono organizzata, sono troppo superficiale: Jay ha bisogno di una moglie e io, a ventitré anni, non sono pronta per la vita coniugale. Devo ancora imparare a vivere e Roman sta cercando di insegnarmelo”. Quasi una sincera – e forse eccessiva – assunzione di responsabilità, una sorta di riflessione sui propri limiti, e un riservato cenno alla portata del cambiamento che irrompe nella sua vita attraverso il regista. Dopo un periodo trascorso insieme a Londra, Roman e Sharon si sposano nella stessa città, nel gennaio del 1968. Polanski racconta che si è innamorato di lei “proprio all’inizio [delle riprese], quando giravamo sulle Dolomiti”: avevano preso LSD e ascoltato musica. E aggiunge: “Non eravamo destinati a un futuro insieme, non è durata molto”.

Nel 1968, Sharon Tate recita nella commedia The Wrecking Crew (Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), diretta da Phil Karlson. La pellicola segna il debutto di Chuck Norris, e il personaggio interpretato da Sharon Tate, Freya Carlson, ispirerà quello di Felicity Shagwell in Austin Powers – La spia che ci provava (1999). Successivamente ottiene il ruolo di protagonista in 12+1 (Una su 13), con Orson Welles, Vittorio Gassman e Vittorio De Sica, che uscirà nel 1969.

L’ultimo libro letto da Sharon Tate – che non teneva un diario –  è “Tess of the d’Urbervilles”, pubblicato dallo scrittore britannico Thomas Hardy nel 1891 (in Italia nel 1904). Lo consiglia a Polanski, che nel 1979 ne farà Tess, un film dedicato a lei. La protagonista, Nastassja Kinsky, vincerà il Golden Globe come astro nascente.

Dell’omicidio dell’attrice, avvenuto il 9 agosto 1969 a Bel Air per mano della setta guidata da Charles Manson, tanto si è scritto (oltre 400 libri), fin quasi a oscurare la sua vita, sintetizzare e far coincidere la sua esistenza con la sua fine.

Dammi due settimane per partorire e poi uccidimi”. Questa frase è stata rivolta da Sharon Tate ai suoi assassini. Polanski chiederà espressamente ai giornalisti che seguono il caso se si siano preoccupati di raccontare anche quanto Sharon fosse buona e vulnerabile (“Era così autentica, non contaminata dal successo” dice di lei George Harrison). Una donna che, in una situazione estrema, sembra mettersi nei panni di chi ha deciso arbitrariamente di porre fine alla sua vita, e non chiede di essere risparmiata, ma solo di poter dare alla luce suo figlio. Viene da chiedersi se, nell’aura che avvolge oggi Roman Polanski – una sensazione tangibile di potenza controllata che lo precede di quindici metri – non sia rimasta agganciata almeno una parte di Sharon Tate, come l’abbraccio della donna, unica parte visibile del suo corpo nella prima di copertina del libro di Christopher Sandford “Polanski: a biography” (2007).

Quella sera, a differenza di Jay Sebring e altre tre persone uccise, Steve McQueen si imbatte – nelle parole della moglie Neile Adams – in una “chickie” e cambia programma, disertando la serata nella casa di Cielo Drive. Dopo quel 9 agosto, il mondo e Hollywood cambieranno per sempre. Il padre di Sharon Tate, sotto copertura da hippie, indaga per alcuni mesi sulla sua morte. La madre diventa una pioniera leader dell’allora nascente movimento per i diritti delle vittime di crimini, e favorirà l’introduzione delle loro dichiarazioni nei processi e nei procedimenti sulla libertà condizionale.

I giorni immediatamente precedenti Woodstock, l’omicidio di Sharon Tate invade le prime pagine. L’insensatezza dell’evento sciocca l’immaginario, fino al punto di sovrapposizione tra la sua morte e la fine dei solari anni Sessanta. Una fine pesantemente segnata, poco più di un anno prima, anche dall’assassinio di Martin Luther King.

L’uomo era andato sulla Luna, il progresso tecnologico ci aveva fatto sentire più intelligenti, e gli omicidi ci sconvolsero, anche perché avvenuti in un posto tranquillo e agiato” commenta Polanski a proposito di questo “turning point” in cui sembra tramontare tutto. Tutto quanto aveva fatto degli Anni Sessanta un momento la cui presa sulla realtà e sull’immaginario sembra eternamente viva. Lo shock confluisce nella vulgata simbolica “hippie à killer”, che non può oscurare quella che è una palese contraddizione – l’assassino, più che il frutto malato, è il nemico numero uno della controcultura.

I corpi di Sharon Tate e suo figlio sono sepolti a Culver City, California. La casa in cui viveva è stata demolita nel 1994.

My whole life has been decided by fate. I’ve never planned anything that’s happened to me (La mia vita è stata interamente decisa dal destino. Non ho programmato niente di ciò che mi è successo)”.

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