David di Donatello 2004: Doppio sogno.

L'edizione dei David di quest'anno, funestata dalla notizia della morte di uno degli ostaggi italiani in Irak, ha sancito la vittoria del Giordana de "La meglio gioventù" e la formidabile apparizione sullo stesso palco di Roberto Benigni e Steven Spielberg, i due sognatori per eccellenza del cinema mondiale di oggi.

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Nel momento in cui Roberto Herlitzka lubrifica con fare sognante i cardini della sua prigionia, aprendosi alla luce di un'alba romana ancora addormentata, si fa largo un sogno maestoso e imperante, l'ipotesi svagata e tragica che un'altra vita è possibile.Mattew, Isabelle e Thèo non si conoscono, eppure si conoscono da sempre. Siedono vicini alle folgorazioni de Il Corridorio della paura di Fuller, lei per giunta imita la Dietrich di Venere bionda che viene letteralmente fuori dalla pelle di uno scimpanzè. Il cinema esce fuori dal suo corpo, si reinventa un'identità, una pelle, un nome. Da questo momento in poi sarà qualcosa d'altro rispetto a tutto e al tempo stesso sarà il tutto.

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Stefania Rocca guarda in macchina, i titoli di coda le sfiorano i tratti, ma la sua storia comincia appena  e già non siamo più in grado di assistervi. Il sogno luccica intrepido e sicuro nell'iride di uno sguardo che la realtà non sa più dirla. L'ha sostituita, ne ha decretato il tramonto con una successiva nascita (l'occhio umido della protagonista annuncia la venuta alla luce di un figlio). Placido è un morto che non sa di esserlo. E che non fa nulla per mostrarlo. Gioca nudo con la sua giovane amante nell'acqua, si addormenta vicino agli scogli spettrali e gioiosi dell'immaginazione e sogna del suo corpo, della sua giovinezza, del sesso e delle nuvole, prima di ri/sprofondare nel pantano del vuoto morire di tutti i giorni.


Il cinema italiano, checchè ne dica il sempre professionale Baudo all'inizio delle danza dei David, non sta un granchè bene. Ma non è nemmeno morto. Basti dare un'occhiata ai frammenti di cielo appena citati: Bellocchio/ Bertolucci/ Argento/ Martone. Il nostro cinema esiste e resiste grazie a loro e a qualche altro nome che faremo in seguito, il resto è noia, o quasi. Non è tutto. Oggi non basta più "fare il cinema". Bisogna sfarlo, dimenticarlo per riacquisirlo sotto vesti nuove, agitarlo senza nessuna cautela, viverlo come ultima briciola di vita. Non basta ancora. Va sognato, forse prima di ogni altra cosa. Le malizie naturalistiche o di costume che dir si voglia, le lasciamo al passato, vogliamo lo scombussolamento, lo shock, lo sconvolgimento. Non parliamo di sesso e violenza, ma di cuore e vita, anzi, ancora di più, esigiamo che i film puzzino d'esistenza, di calore, di sbagli, di inconvenienti, d'amore dato e magari non offerto in cambio. Tanto basta per accantonare tutti i premi dati quest'anno dalla giuria del David, salvando magari i riconoscimenti agli attori (anche se Verdone meritava, e non solo quest'anno, come lo stesso Rubini del bellissimo L'amore ritorna e il Placido letteralmente immenso di L'odore del sangue) e poi nulla più. Quello che però più conta è che la serata dei David (trasmessa ieri sera su Rai Uno) è stata comunque qualcosa di intenso e irripetibile, devastante e straordinario. Il cinema c'entra fino a un certo punto, perché in certi momenti ha sfiorato in modo così oltraggioso e impudente la vita da farci gridare al miracolo, o quasi.

Mentre infatti si faceva sempre più certa la notizia dell'uccisione di uno dei quattro ostaggi italiani, Roberto Benigni ha fatto il suo ingresso sul palco, tentando di annunciare il premio alla carriera conferito a Steven Spielberg. Tentato appunto. L'atmosfera irreale, i minuti contati e la notizia che ancora calcava sull'immaginazione devastata dei presenti ha fatto il resto. Appunto. Nessuna presentazione di una persona fisica, in carne e ossa, ma il semplice e sublime annuncio che la vita è bella, ma che il sogno di quest'ultima lo è ancora di più. "Spielberg sogna per noi", ha detto Roberto, e, se lo dice lui, suona stranamente convincente, se non addirittura commovente. I due registi bambini per eccellenza, come scriveva in un suo pezzo Federico Chiacchiari, insieme, uniti da un tragico e scherzoso destino di morte che è ancora capace di travestirsi da vita, da gioco, da speranza. In una dissolvenza incrociata abbiamo visto il festante e inconsapevole Pinocchio giocare con un'ombra che non è più semplice riverbero di se stesso, ma fatata coincidenza con il corpo infantile e sorridente dell'inventore di E.T., dello stratega di Indiana Jones, dell'occhio commosso e romantico che assiste all'infinito amore di Haley Jole "Pinocchio" Osment per la madre, con quell'inquadratura della camera da letto che in Artificial Intelligence dice tutto sulla vita, sul contatto, sull'amore e sul ricordo di quest'ultimo. Un'ombra d'amore allora che a cospetto di Steven (ma sì, chiamiamolo per nome, ai bambini si dà del tu) si trasforma in iperbole di corpo, quello strappato al grigiore odierno, quello che scalcia, tenero e irriverente, nelle retrovie della nostra fanciullezza e che talvolta si riaffaccia alla ribalta del presente, invitandoci a giocare con lui, a ballare sulle nostre vite, a girare su noi stessi, cadendo e rialzandoci senza farci troppe domande. Sarebbe bello pensare che in fondo sia stato Steven a girare La vita è bella e Roberto invece Minority Report e E.T. e forse è davvero andata così, dunque festeggiare uno significa osannare l'altro, appunto perché la logica, la storia, le date, i nomi, non esistono più nei sogni, tutto è sfumato, lieve, profondo. Come la sensazione di essere per una volta protagonisti di un gioco che da La vita è bella ad oggi non è cambiato. Per un attimo Roberto ci ha fatto dimenticare di noi, semplicemente, delle tragedie che ci toccano e di quelle che ci sfiorano, delle morti annunciate e di quelle improvvise. Ci ha dato la mano vedendo in noi il piccolo Giosuè del suo penultimo film, per poi distrarci, mostrandoci l'orrore e la luce, il perdono e il silenzio. Ci ha fatto credere che alla fine di tutto vi sarà un carro armato pronto a marciare sui nostri passi. Oggi lo crediamo ancora. Nel cinema, come nella vita. E' bello sentirsi un po' meno soli.

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