Demolition, di Jean-Marc Vallée

Jean-Marc Vallée sovraccarica di significazioni il dolore della perdita, che, nell’ipertrofia narrativa ed estetica in cui sguazza Demolition finisce per essere solo una formula accattivante

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Una discussione in macchina costruita attorno a quei rimproveri per la scarsa attenzione che hanno tutta la dolcezza del quotidiano. Poi, dal nulla, l’incidente, l’attesa in ospedale, spezzata da frammenti del passato che schizzano dietro lo sguardo ferendo come proiettili, e le ritualità funebri attraversate da un corpo in perenne fuori sincrono rispetto al mondo. Funzionano alla grande le battute iniziali di Demolition, con l’incedere secco e doloroso di un montaggio dove le inquadrature si aprono sempre in ritardo o vengono interrotte troppo presto, lasciando che i margini delle immagini si carichino di quel vuoto in cui precipita il presente, quando la crudele imprevedibilità della morte sconvolge le sue coordinate.
demolitionPeccato però che, subito dopo i dieci minuti di incipit, Jean-Marc Vallée decida di prendere troppo alla lettera una della delle frasi, “tutto è diventato una metafora”, scritta dal Davis di Jake Gyllenhaal in uno dei suoi tanti interminabili soliloqui epistolari scatenati dall’inceppamento di un distributore automatico, sovraccaricando così di significazioni il dolore della perdita, quella della moglie, che, nell’ipertrofia narrativa ed estetica in cui sguazza Demolition (una su tutte: l’estenuante balletto liberatorio che si consuma fino alla banalizzazione per tra le strade della città), finisce per essere nulla più che una formula accattivante, dove i sentimenti, continuamente chiamati in causa, diventano uno schermo senza profondità.
Se non puoi sistemare qualcosa, devi smontare tutto e capire cosa è importante. Solo allora puoi rimettere tutto a posto”. Come già promesso dal titolo, l’architettura circolare del film, con la follia, il senso di colpa, l’incapacità di essere in un mondo capovolto dalla morte che s’intrecciano con l’immagine ritornante del ricordo di Julia, la moglie di Davis, è tutta costruita intorno alla trovata, ben presto dissolta in un effetto ridondante, della demolizione. Dal frigorifero, al computer dell’ufficio, dalle luci del bagno del suocero Chris Cooper, alla casa intera, come metafora del proprio matrimonio, fino al corpo stesso, ancora una volta, dopo Dallas Buyers Club e Wild, oggetto d’indagine centrale nel cinema di Jean-Marc Vallée, l’immagine della demolizione diventa lo specchio di un universo interiore difettoso, da aggiustare.

demolitionE Jake Gyllenhaal ce la mette davvero tutta per farsi corpo dell’elaborazione del lutto, smettendo via via la sua vecchia pelle per andare alla ricerca di una nuova verità da abitare, ma quel che manca a Demolition è il coraggio di lasciarsi andare, è l’intimità e l’autenticità di uno sguardo capace di raccontare il segreto delle piccole e grandi frantumazioni che si compiono nella parabola di demolizione e nuovo assemblaggio descritta dal protagonista. Siamo, insomma, assai lontani dalle vertigini emotive di Reign over me, quello sì, cinema veramente capace di rischiare tutto per inseguire le folli traiettorie di un corpo in bilico tra straniamento e dolore. Se Vallée sostituisce il cuore con l’artificio, spogliando così il corpo fino all’anonimato, Demolition sciupa malamente anche le potenzialità di quel contatto, il rapporto di amicizia nato per caso con la Karen di Naomi Watts, che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto tracciare, attraverso la vicinanza, una forma di salvezza dal vuoto e che invece rimane solo un’immagine statica, votata alla messa in mostra di altre disfunzioni, la confusione esistenziale di Karen e l’identità precaria di suo figlio.
Ecco la perversione del cinema di Jean-Marc Vallée, Demolition non ci parla mai davvero del dolore. Preferisce, piuttosto, esibirne lo spettacolo.

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Titolo originale: id.

Regia: Jean-Marc Vallée
Interpreti: Jake Gyllenhaal, Naomi Watts, Chris Cooper, Polly Draper, Brendan Dooling, Wass M. Stevens, Tom Kemp
Distribuzione: Good Films
Durata: 101’
Origine: USA, 2015

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