"Detachment – Il distacco", di Tony Kaye

Il suo è uno stare addosso al corpo quasi ossessivo, come se con questa vicinanza estrema si cercasse di coinvolgere lo spettatore. Il risultato, invece, è l'opposto, l'impossibilità di empatizzare con i personaggi, Henry su tutti, stabilendo una nuova distanza, questa di tipo emotivo, che separa lo spettatore dallo schermo. Tutto invece si sposta sul piano cerebrale con una freddezza quasi logica che accompagna la visione del film, avendo la sensazione di essere intrappolati come quelle persone ritratte nelle fotografie

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DetachmentPerché fare l'insegnante? È la domanda che viene posta ai professori di liceo che, nelle prime immagini del film, raccontano le loro motivazioni, che cosa li ha spinti a scegliere tale percorso, il loro odio nei confronti di questa professione, ma al tempo stesso un amore, un compito che si sentono in dovere di portare a termine, forse per essere utili alla società, forse per passione personale. Un paio di minuti che ci presentano uno squarcio del sistema d'istruzione americano, tanto spesso criticato, sembrando avvicinare il film di Tony Kaye a documentari come Waiting for Superman. E poi il volto sofferto di Adrien Brody va a riempire lo schermo, rispondendo a quelle stesse domande come fosse lui stesso un insegnante e ci svela la natura ossimorica che attraversa inesorabile Detachment. Quello che all'inizio sembrava un documentario è in realtà un film di finzione, la storia di Henry Barthes, supplente di letteratura che arriva in uno di quei licei “difficili”, dei suoi colleghi, tutti con le proprie frustrazioni, della sua famiglia e dei suoi alunni. Una tranche de vie, un momento della vita di tutte queste persone, apparentemente come tanti altri, ma che invece rappresenta un punto di svolta per le loro esistenze, come se l'arrivo di Barthes facesse da catalizzatore.

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DetachmentMa torniamo a quell'ossimoro iniziale. Detachment non è un documentario, ci è sempre chiaro che si tratti di un film di fiction (non fosse che per i tanti volti noti che danno vita ai personaggi), eppure Tony Kaye sceglie proprio il linguaggio di questo genere, un misto di interviste e momenti che sembrano ripresi da un punto di vista nascosto, un celarsi dietro la macchina da presa per cogliere il momento reale, a cui si vanno a mescolare tendenze da videoclip e suggestioni tra il pittorico e fotografico, quasi delle still life che intrappolano i personaggi in un eterno presente, attraendoli sempre di più verso la morte (lo stesso spirito di morte che emerge dal passato di Henry attraverso i suoi flashback). Forse, allora, non è un caso che Meredith, l'alunna problematica che trova in Barthes un punto di riferimento, vada in giro a scattare fotografie rubate di soggetti inconsapevoli, creando poi dei collage, una storia completamente diversa, unica traccia che alla fine rimarrà di lei. Un esperimento che si avvicina alla frammentazione dello sguardo di Kaye, il quale sembra voler raccontare i suoi personaggi da molteplici punti di vista, creandone un ritratto quasi cubista. Uno dei tanti ossimori del film.

Il titolo stesso sembra essere di per sé contraddittorio. Henry Barthes è una persona che cerca sempre di lasciare un certo distacco tra sé e gli altri, fallendo di volta in volta, spinto da uno spirito caritatevole o forse da semplice dovere nei confronti del prossimo. Ma il distacco, questa giusta distanza, non si riferisce solo all'attitudine del protagonista. Lo stesso Kaye sembra cercare per tutto il film il punto adatto da cui riprendere Henry. Inesorabilmente il suo occhio riduce sempre più le distanze, si avvicina massimamente al suo volto, tentando di svelarne l'anima, facendo emergere i ricordi traumatici che lo hanno formato. Il suo è uno stare addosso al corpo quasi ossessivo, come se con questa vicinanza estrema si cercasse di coinvolgere lo spettatore. Il risultato, invece, è l'opposto, l'impossibilità di empatizzare con i personaggi, Henry su tutti, stabilendo una nuova distanza, questa di tipo emotivo, che separa lo spettatore dallo schermo. Tutto invece si sposta sul piano cerebrale con una freddezza quasi logica che accompagna la visione del film, avendo la sensazione di essere intrappolati come quelle persone ritratte nelle fotografie di Meredith. DetachmentL'unico vero guizzo di vitalità rimane James Caan, da sempre corpo atipico del cinema americano. È solo con la sua immagine che il film sembra uscire fuori dagli schemi, liberandosi da quella pulsione di morte. Caan stravolge le regole, fa sua ogni inquadratura, come se il suo personaggio fosse uscito da un altro film. E allora il ballo con Blythe Danner o la sua vicinanza con Lucy Liu non sembrano più finti, ma reali, dandoci un momento di respiro, facendoci davvero sentire qualcosa.

 

Titolo originale: Detachment

Regia: Tony Kaye

Interpreti: Adrien Brody, Christina Hendricks, James Caan, Lucy Liu, Bryan Cranston, Marcia Gay Harden, Sami Gayle, Betty Kaye, William Petersen

Origine: Usa, 2011

Distribuzione: Officine Ubu

Durata: 97’

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