Di che genere è il killer? Mindhunter e L’Altra Grace
Il maschile ed il femminile diventano due aspetti da considerare, nelle rispettive variazioni comportamentali, nel racconto delle due delle nuove serie disponibili su Netflix. Da Fincher a Harron
Bisogna stare molto attenti quando si professa l’uguaglianza tra uomo e donna. Perché se è innegabile la necessità di una parità di genere a livello sociale (e giuridico), la stessa cosa non può essere applicata quando si parla di esperienze e di prospettive di sguardi. E se c’è una cosa che tutta questa storia dell’harassment ha messo in luce è proprio questo: la biologia segna anche una predisposizione ad essere soggetti ad alcune situazioni e ad un modo in cui (non) raccontarle. Alcune sfumature, alcuni atteggiamenti, alcuni bisogni, appartengono maggiormente ad un genere rispetto che all’altro. A difesa di questa sacrosanta differenziazione tra maschile e femminile (seppur stereotipata, seppur talvolta non così netta) sono arrivate a distanza di qualche settimane due serie che partono da un similare obbiettivo ma che hanno come protagonisti un uomo ed una donna. Non solo, una è scritta e diretta da uomini, la seconda da donne.
Si tratta ovviamente di Mindhunter e L’Altra Grace, entrambe disponibili da poco su Netflix, due prodotti che condividono l’interesse comune di entrare nella testa di un killer. Per farlo escludono qualsiasi velo di approfondimento per le vittime in questione e si concentrano sul cosa abbia spinto al gesto, cosa si nasconde dietro l’atto in sé. Le ambientazioni sono diverse, la prima si svolge nell’America dei dipartimenti dell’FBI degli anni ’70, la seconda nel Canada meta di immigrazioni di fine ‘800, così come anche gli obbiettivi finali, individuare il modus operandi di un omicida seriale da una parte e dall’altra scagionare una donna condannata all’ergastolo. C’è però questa comune intuizione di postulare una complessità dei meccanismi della mente che le rende in qualche modo complementari in un’ottica, appunto, di maschile e femminile. All’interlocutore del caso l’omicida si può presentare infatti in maniera differente. L’apparentemente docile Grace Marks, accusata di aver ucciso il padrone della casa a cui prestava servizio e la sua governante, parla al dottore, incaricato di capire se il suo gesto è stato figlio di un’isteria oppure cucitole addosso da qualcun altro, in maniera preimpostata. La donna nella cella in cui è stata reclusa pensa già a cosa dire e nel modo in cui farlo, non tanto per essere assolta, quanto per instaurare un gioco di piacere ed aspettative con chi le parla. Dire cosa l’uomo si vuole sentir dire così da soggiogarlo. Un’importanza data alla modalità che non è solo
E’ proprio qui che giace la più grande differenza visiva con Mindhunter. Quando i due agenti dell’FBI intervistano i loro serial killer per individuarne le affinità questi sono sempre protagonisti, sempre centrali. Nella loro rappresentazione cinematografica e nella scrittura che ne è stata fatta i soggetti interrogati (tutti uomini) non hanno alcuna intenzione di celare la propria personalità né di omettere i propri peccati. Quando ci provano cedono subito. E lo fanno proprio sull’istigazione al complesso di superiorità, di una certa megalomania del gesto. Esemplare è il soggetto più esaminato, quel Ed Kemper accusato di aver ucciso e violentato alcune donne compresa la madre, che riesce a rendersi interessante agli occhi dell’agente Holden Ford puntando non su un gioco sottile, come invece fa Grace, ma su una sincera sfrontatezza posta per avvicinarsi ad un piano amicale. Per semplificare, si può dire che è stato sfruttato lo stereotipo del cameratismo maschile per individuare la prassi del perfetto serial killer. Una tecnica che ha come controindicazione quella di avvicinarsi troppo al soggetto e di prenderne le parti. Non a caso questa preoccupazione è stata fatta esprimere nella serie da un personaggio femminile, la dottoressa Wendy Carr, e se proprio bisogna essere precisi la stessa intuizione madre della serie di prendere in considerazione l’omicidio come atto figlio di un bagaglio personale pregresso viene dalla fidanzata del protagonista dottoranda in sociologia.
D’altronde l’autore simbolo di Mindhunter, David Fincher, oltre che essere avvezzo alla psicologia degli omicida, è anche uno che ha saputo mettere in scena come una donna si approccia ad un atto criminale. La Amy Dunne di Gone Girl, troppo poche volte menzionata tra i personaggi femminili più emblematici degli ultimi anni, per punire l’infedeltà del marito non ha semplicemente escogitato un piano omicida, ma ha creato un gioco di cui lei poteva essere narratrice e paradossalmente vittima. Il suo scopo era manipolare la mente umana affinché ne potesse uscire illesa. Come Grace Marks che, omettendo le sfumature esoteriche su cui propende la serie nel suo finale, punta a rendersi immune grazie alla costruzione del suo stesso racconto. Con questo non si vuole presupporre che i racconti al femminile tendano sempre verso l’implicito e quelli maschili verso l’esplicito, ma sicuramente nella modalità di narrazione bisogna tenere presente il fatto che esistano delle variazioni comportamentali. Esempio: se l’Altra Grace fosse stata impostata nello stesso modo di Mindhunter, ovvero con la protagonista che senza scrupoli confessa i particolari atroci dei suoi omicidi, tra l’interlocutore, ovvero lo spettatore, ed il colpevole non si sarebbe venuto a creare un livello paritario (come invece succede in entrambe le serie), ma sarebbe scattato immediatamente il piano del giudizio. Grace è pazza o malvagia, fine della serie. Sul perché succeda bisognerebbe scomodare i retaggi storico e culturali, oppure tutti gli aspetti che implicano la sessualità, però il dato di fatto interessante è che sulle stesse tematiche le aspettative sono diverse se hanno come protagonisti due generi diversi. E questa riflessione arriva in un momento cruciale in cui bisognerebbe interrogarsi sul come raccontare i fatti.