DOCUMENTARIO – In Transit: Maysles o della malinconia

Il lavoro postumo del cineasta è un montaggio di situazioni, di piccoli eventi e incontri, mentre la natura fuori rimane quasi indifferente, forse in ascolto di un’America senza eroi né personaggi

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L’idea della factory, del laboratorio aperto in cui formazione e produzione, lavoro e consapevolezza si fondono insieme per realizzare collettivamente un’ipotesi di cinema, è affascinante, lo è sempre stata. È il simbolo di una indipendenza produttiva e creativa dentro e fuori il sistema, come nel caso della factory di Corman, o l’attestazione di un pensare e mettere in atto le pratiche artistiche come marchio, brand, logo alternativo (come nel caso della factory di Warhol); oppure, nel caso dell’Ethnography Sensory Lab di Harvard, è la volontà di creare uno spazio in cui teoria e pratica si fondono insieme con il fine di far nascere nuove immagini (e il cinema di J.P. Sniadecki o Lucien Castaing-Taylor sta lì a dimostrarlo).

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La factory porta con sé anche l’idea di resistenza, di alternativa consapevole ad un sistema produttivo e formativo convenzionale; l’idea di una difesa di un certo modo di pensare l’immagine, di fare cinema, un cinema del reale. Il Maysles Documentary Center, che ha sede ad Harlem, venne fondato da Albert Maysles nel 2006, proprio con l’intento di pensare un luogo che possa essere un centro dinamico e aperto di preservazione e realizzazione di una certa idea di cinema, quella che appunto Maysles (morto a 88 anni nello scorso marzo) rappresenta.

 

Quale idea? Quella di un cinema della realtà, di un cinema che si sviluppi e nasca a partire da una fiducia incrollabile nella realtà e nel cinema stesso, nella capacità che il documentario ha di catturare la realtà, di coglierla nella sua flagranza. Un’immagine di resistenza, appunto. Questa fiducia totale nei confronti del cinema come dispositivo diretto, strumento che cattura brani, frammenti, momenti di vita, è alla base dell’ultimo film uscito dal Maysles Documentary Center, che da un po’ di tempo sta circolando in vari festival internazionali dopo la sua presentazione al Tribeca Film Festival.

 

in transitIn Transit – che è in realtà un film collettivo, firmato da un gruppo di giovani registi usciti appunto dal centro, come Lynn True, Nelson Walker, Ben Wu e David Usui – si pone sin dall’inizio, sin dal suo incipit come un lavoro che difende un passato, uno stato del cinema e della realtà. Girato all’interno dell’ Amtrak’s Empire Builder, uno dei treni più antichi degli Stati Uniti, che in un viaggio della durata di tre giorni attraversa diversi Stati Americani, In Transit è strutturato come un montaggio di situazioni, di piccoli eventi e incontri. Le videocamere catturano e riorganizzano brani di conversazioni casuali tra passeggeri, gesti e sguardi rituali, salite e discese, mentre la natura fuori rimane quasi indifferente, forse in ascolto di un’America sommessa, senza eroi né personaggi. Ogni persona può rimanere per un tratto, per il tempo di una inquadratura perfino, ma prima o poi abbandonerà il treno, lasciando il posto ad altri, che a loro volta scompariranno. I tre giorni di viaggio diventano l’occasione di un ritratto collettivo, fatto di piccoli tratti, pennellate accennate, che scivolano l’una dopo l’altra al ritmo scandito e costante del treno.

 

in transitEcco: il treno. Non è un caso che questo film, al tempo stesso testamentario (Maysles compare come direttore della fotografia e produttore-supervisore del film: la sua impronta è dunque lungo tutto il film) e di passaggio, di transito verso una nuova generazione, sia ambientato all’interno del mezzo che più di una volta ha rappresentato uno stato inaugurale del cinema: il treno. In transit è da questo punto di vista un film che ritorna ad uno stato inaugurale del cinema, al suo movimento iniziale, lo stare seduti mentre uno spettacolo scorre, in movimento, da un finestrino/schermo. La differenza sta però nel fatto che lo spettacolo non si trova più all’esterno del treno, ma al suo interno. Le inquadrature verso l’esterno non corrispondono mai ad un raccordo sullo sguardo, ma sono delle semplici inquadrature di stacco, di raccordo tra un frammento e l’altro. Il film rovescia verso l’interno il suo sguardo , facendo del mondo umano, dei passeggeri del treno il proprio spettacolo.

 

Ma questo rovesciamento è malinconico. È un gesto etico prima ancora che estetico. Negare la visibilità del mondo significa scegliere un mondo umano che è ancora da raccontare, significa pensare ad uno stato del mondo che è fatto di individui, la cui presenza, la pura apparizione, le loro parole devono essere raccolte, catturate appunto, quasi come ultima traccia di una umanità altrimenti inghiottita nella massa. Una malinconia serena che attraversa tutto il film, che si riverbera nel paesaggio invernale che si capta fuori dai finestrini, nelle voci calme di uomini e donne che parlano, sia pure per il breve passaggio di una inquadratura, della vita.

 

Il sito del film

 

Il trailer

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