Dove non ho mai abitato, di Paolo Franchi

Un cinema di esibito autocompiacimento, un film che appare molto più lungo della sua reale durata. Impermeabile per molti. Accessibile per pochi eletti. È proprio vero: l’arte non è per tutti

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C’è una via di uscita dalle ‘costruzioni’ di Dove non ho mai abitato? Un punto di fuga dalle traiettorie Torino-Parigi, fatto di viaggi in aereo a/r, dagli interni borghesi lentamente attraversati dalla mdp, dalle dinamiche sentimentali dove tutto il mondo sembra chiudersi attorno ai desideri e alle delusioni dei protagonisti. A cinque anni da E la chiamano estate, Paolo Franchi torna dietro la macchina da presa con un film sovrabbondante, letterario (anche se non c’è nessun romanzo all’origine) che sembra guardare il cinema d’autore francese e il ‘decadentismo’ di Visconti. Perché Dove non ho mai abitato è un film decadente. Che sembra già proiettato nel passato. Che parla di passioni ma trasmette già lo spettro della morte.dove non ho mai abitato fabrizio gifuni

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Francesca (Emmanuelle Devos) vive orma da tempo a Parigi con il marito Benoît (Hippolyte Girardot) e la figlia adolescente Lena (Alexia Florens). Dopo che il padre Manfredi (Giulio Brogi), un famoso architetto, ha avuto un incidente domestico, si stabilisce da lui a Torino per assisterlo. Inoltre dovrà farne le veci per il progetto di una villa sul lago commissionatagli da una giovane coppia. Lì si troverà a lavorare al fianco con l’uomo di fiducia del padre, Massimo (Fabrizio Gifuni), che ha dedicato tutta la sua vita alla carriera tanto che il suo legame con la compagna Sandra (Isabella Briganti) non appare solido. Dopo l’iniziale diffidenza, tra i due nasce un’intesa che cresce con il passare dei giorni.

dove non ho mai abitato emmanuelle devosDa che parte va il cinema di Paolo Franchi? In una direzione non così narcisisticamente autolesionista come nel film precedente, ma certamente nelle zone di un esibito autocompiacimento, evidente in ogni inquadratura, nei movimenti di un piano-sequenza, nei primi piani schiacciati di un bacio e soprattutto in un avvicinamento lento verso una finestra vuota dove poi appare il volto di Francesca. Attraversato da musiche che, da Chet Baker (My Funny Valentine) a Il soffio passando per la versione karaoke di Paradise, esplodono nella colonna sonora di Pino Donaggio che pompa le scene madri. Con l’illusione-presunzione di rifare Douglas Sirk o anche i residui mélo di Brian De Palma, Franchi ricicla i luoghi come l’ascensore dove riprende forma per un istante un doloroso passato o l’impossibilità di un futuro. I protagonisti stanno spesso a tavola, a casa, nei bar, al ristorante, nella propria abitazione con i camerieri, e infatti Emmanuelle Devos sembra uscita da Desplechin per essere catapultata dalle parti del peggior Leconte. Un cinema a cui il regista sembra guardare per quella compiaciuta rarefazione, nel filmare il desiderio come un ‘impeccabile’ esercizio di stile, per raccontare l’amore in un film senza amore. Con una tenda che si chiude come a teatro. Un cinema dove il livello della rappresentazione appare dominante. Chiuso nelle prospettive dove tutto torna, e in un tempo che dilata anche la reale durata dell’opera. Impermeabile per molti. Accessibile volutamente per pochi “eletti”.

Regia: Paolo Franchi

Interpreti: Emmanuelle Devos, Fabrizio Gifuni, Giulio Brogi, Hippolyte Girardot, Isabella Briganti, Giulia Michelini, Fausto Cabra, Jean-Pierre Lorit, Alexia Florens, Naike Rivelli, Valentina Cervi, Yorgo Voyagis

Distribuzione: Lucky Red

Durata: 97′

Origine: Italia 2017

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